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martedì 16 dicembre 2008

Letture - 3

letterautore

Commentari - Il lettore intelligente di Voltaire deve avere la matita in mano, ma le glosse sono topografie inutili. Tanto più quanto sono insistite, dettagliate. Sono appunti di viaggio, che narrano gli umori del commentatore. Sono in funzione del commentatore, Cesare è il caso. Ma senza lo spessore (gli attrezzi, il fondo, la sorpresa) della critica. Sono dialoghi con se stessi, puntelli forse, ma occasionali se non precari, che presto saranno rimossi. Lasciando le concrezioni di ogni rimosso, come del resto ogni lettura senza le glosse.

Gadda – Ma è un realista, ancorato alla formazione sociologizzante dei suoi anni formativi: la patria, la guerra, la piccola borghesia urbana, i doveri familiari. La sua lingua è una bombarda contro questi minuti condizionamenti, che erano la sua – personale – realtà. Che però movimenta piuttosto che sconquassarli. Come provocare, o solo osservare, denotare, l’impazzimento delle componenti dell’atomo senza romperlo. È la piccola tragedia probabilmente dell’uomo, non essere uscitola quei limiti che così fortemente avvertiva.

Giallo – Nella forma noir è presto imploso, per la deflagrazione del suo personaggio, l’uomo d’azione. I pentiti, le spie multiple, e l’universalizzazione dell’informatore, dal mafioso all’inquirente, ne hanno frantumato la ricetta: non c’è violenza eccezionale, la violenza è normale.
Non c’è quindi la sorpresa. Il giallo resta possibile se procedurale, o indiziario, alla Sherlock Holmes.

Il suo successo – in Italia tardivo e istantaneo – si somma all’illusione della giustizia, che giudizi e castighi siano equi e inesorabili. Ma con un fondo più complesso: il bisogno di transfert dalla violenza minuta, quotidiana, ossessionante, che la vita metropolitana, nuova dimensione del paese, impone. Anche quando si individua il colpevole – l’impiegato, l’automobilista, il compagno di coda – questi è necessariamente non individuabile: quand’anche fosse un violento assassino, o un povero cretino, non lo sapremo, per noi è un fatto generale, la prepotenza, il disordine, la maleducazione, l’inefficienza. Che occupano l’indifferenza e l’amoralismo – la semplice minaccia di un ministro annulla all’istante un assenteismo del 40 per cento fra gli impiegati. Non si impazzisce in questa prepotenza ordinaria senza un sentimento che giustizia è – sarà - fatta.
I serial americani questa esigenza soprattutto coltivano. Inscenano un apparato giudiziario e repressivo che fa sua, prende su di sé, la violenza minuta quotidiana, del borsaiolo, lo scippatore, il pusher, il pirata della strada. Americani o all’americana: questi serial risultano affettati perché il transfert, promosso da manuale, non trova rispondenza nella pratica – fare una denuncia ai carabinieri è l’atto più deludente e depressivo della normale violenza quotidiana.

Hemingway – Era malinconico nel suo vitalismo, questo si sa da più fonti. Ma anche a ben leggere dalla scrittura.
Per essere cresciuto tra donne?
O per sapere il segreto dell’uomo, che è di essere predatore – lui pescatore, cacciatore in Africa di belve?

Italiano – Solo l’italiano letterario si diceva - a fine Ottocento – corrispondesse nelle lingue moderne all’italiano parlato. Ma era – è – una duplice finzione. L’italiano letterario non esisteva al tempo di Stendhal, lo stata inventando Manzoni. E l’italiano parlato è quello, tronfio e insignificante, degli epigoni di Manzoni, codificato a scuola, adottato dai giornali, dalla tv e in Parlamento. Gli italiani continuavano a pensare e parlare nei loro dialetti, che non erano quelli di Gadda e Pasolini, d’arte e bozzettistica, una retorica al quadrato. Ora si è passati dall’italiano alla lingua come moda, Internet, l’sms, you tube, la mobbilitazzione studentesca: alla insignificanza di una lingua insignificante?

Poesia – In origine era ancillare: inventava genealogie e cantava lodi, per i ricchi. Omero ne è prototipo. L’aristocrazia piace, Omero è simpatico – Proust è omerico.

C’è anche quando non c’è, in Stendhal, Balzac, Dostoevskij, Tolstòj. In scrittori che probabilmente non la amano, se non la rifiutano, non sanno leggerla, né si applicano. È nelle “cose” più che nelle parole, nei suoni. La rima, l’assonanza, l’evocatività aiutano semmai un fondo che è immagine e sorpresa, passione, innamoramento.

Pound – Fu fascista per amore dell’Italia. Non per essere reazionario, poiché era jeffersoniano. Non per essere antisemita, non lo fu mai nella forte polemica anti-plutocratica. Non per l’anti-plutocratismo, quello di Pound si situa nell’ingegneria post-1918, non tutta fantasista, e semmai in un’ottica sociale. Fu lontanissimo dal nazismo, che del fascismo è il nocciolo duro,

È in lotta con il realismo sociologizzante del tardo Ottocento, magnificato nel primo Novecento, e soprattutto in America. Da qui il suo bisogno di Dante, realista immaginifico, mitico, religioso.

Proust – La sua nobiltà sono i suoi lettori.
È un allumeur: ci si aspetta sempre qualcosa da lui.

“Le Figaro”, il suo giornale, è quello che pubblica e crea Marinetti e il futurismo. Ma non si può fare un “Proust e il futurismo”, in nessun modo.

Benché legato alla mamma, e con tante vice mamme, è incapace di amore, anche d’immaginarselo. Albertine non parla. Di gelosia e disprezzo sì, ma non di amore. Sa far parlare le donne ma da amiche e blasoni, pettegole, vanesie, carrieriste, donne di mondo – e così pure gli uomini.
È un limite omosessuale, l’amore ristretto al sesso? È così in Gide, in “Le Ramier”, il suo massimo in fatto d’innamoramento.

È un gigante nelle sue decadi, tra il 1890 e il 1920, in Francia e fuori, un unicum, contro alle fumisterie di Fine Secolo e della pace perpetua. E che altro?

Sade - È l’uomo senza fantasia. I suoi mondi eccezionali sono addizioni.
È un bravo operaio, rispetta turni e i ritmi.

Scrivere – Deve avere esoterico fascino, se consente di passare sopra all’immagine deteriore degli scrittori. Pallidi, acidi, contorti nelle pose, a capo chino, di sbieco, le labbra serrate, le palpebre abbassate, le spalle ingobbite, i denti gialli, il collo incassato, lo sguardo spento. Anche quando danno un calcio al pallone o si mettono in bici, anche nell’istantanea sono in posa lugubre. Incattiviti nei ricordi, sia pure dei nonni, sommersi dalle minute miserie dell’editoria e della pubblicistica, i dispetti, i favori presunti, gli amori sempre falsi, favoleggiando di guadagni che sempre sono irrisori, di giudizio svagato sugli eventi storici, personali o politici, più spesso sbagliati, fuori della realtà – senza reale interesse o curiosità, l’occhio va sempre all’ombelico. Evidentemente la scrittura è incantesimo capace di far dimenticare tutto ciò.
Grande fatica dev’essere gestire una rivista letteraria, fra tutti questi rifiuti umani, cariati, che sanno di chiuso, inarticolati spesso, senza entusiasmo. Eppure se ne fanno, e si vendono. A meno che leggere non sia un esercizio masochistico.

È semplificare. I vizi linguistici e le riserve mentali sono nella realtà tali e tanti che la scrittura, meccanismo di logica e sintesi, quindi raziocinante, può rilevarne una quantità infima, e comunque sempre in modo povero – da qui il senso di rapidità del giallo, che privilegia questo tipo di linguaggio (la semplificazione). Da qui anche il fascino della poesia: si può superare la logica povera con una scrittura mimetica, rappresentativa.

Al computer moltiplica l’aspetto artigianale, prima limitato alla preparazione della carta e la matita, benché arricchita dal temperamatite – ma era già stata supplita dalla biro. Scandisce meglio i tempi, elimina o attenua l’ansia. Perché crea insieme con lo scrittore: corregge la grafia, dà i sinonimi, fornisce i riferimenti. Perché vuole attenzione sempre pratica, con i suoi procedimenti rapidi e spesso senza appello: impone di sapere cosa si vuole scrivere. E per la capacità che dà di riscrivere, senza cancellare, e di dare più forme grafiche allo scritto.

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