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martedì 16 dicembre 2008

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (27)

Giuseppe Leuzzi

L’odio-di-sé meridionale
La Calabria ha una storia in cinque volumetti. Pubblicati da Laterza, curati dal professor Piero Bevilacqua, in un “Progetto di «Storie regionali»”, a uso delle scuole. In cui la Calabria non c’è.
La Calabria ha una civiltà bruzia, o brezia, documentata, anche visivamente. Ma non in questa storia.
Ha una storia bizantina molto lunga e molto nobile, documentata, nella lingua (fu a lungo il tesoro di molti glottologi tedeschi, Rohlfs per dirne uno), i nomi e i toponimi, le chiese, le pergamene, gli incunaboli, la storia diplomatica, per un millennio fu la sola pertinenza e presenza della cultura greca in Europa – eh sì! Che anzi fu salvata dai suoi amanuensi, da Cassiodoro a san Nilo – eh sì! La Calabria insegnava il greco, nel Duecento, nel Trecento e nel Quattrocento, all’Europa. Ma questa storia straordinaria si merita un capitoletto. Rohlfs non è neppure citato.
Ha una storia longobarda, nei toponimi, la linguistica, le fisionomie. Mezza pagina.
Ha avuto lunghe, insidiose, persistenti, convivenze saracene. Un riquadro.
Ha una storia normanna, documentata. La Calabria è stata il primo regno normanno, dei figli del sole. Con molte reminiscenze, soprattutto nell’Aspromonte. Mezza pagina.
Ha evidentemente una storia angioina, aragonese, napoletana.
Ha dal Quattrocento una presenza non marginale e continuativa, sempre in vario modo rinnovata, di albanesi e turchi. Niente.
Ha avuto una importantissima storia greca antica, a partire già dai micenei e i cretesi. E questa, già molto arata, è documentata. Si merita mezzo volumetto. Ma insieme con la storia romana fino alla pace augustea. E non negli aspetti più caratteristici e persistenti, quelli cultuali.
Il feudo, il latifondo e il brigantaggio, che nella penisola sono marginali, prendono invece tre libri.
Sono fatti importanti, la storia economica e quella criminale sono importanti. Ma volendo fare della penisola una storia comprensiva, lunga tre millenni, il feudo meriterebbe una-due pagine.
La Calabria ha forse una storia troppo complessa per un mondo sottosviluppato. Ma quanto del sottosviluppo non è dovuto a questa bizzarra assenza di storia? Tanto più per avere una storia che, senza storia, non si comprende. È un mondo a parte, fortemente caratterizzato, non è solo una divisione amministrativa, per il lungo isolamento geografico e per la stratificazione psicologica (l’animus, la sintassi, la causticità, lo scoppio di violenza, l’esterofilia, perfino l’onomastica). Un popolo diverso, anche se più per intrecci, compresa la italianizzazione, che per separatezza. Ma non selvaggio o primitivo, come si vuole farlo passare: è diverso per una diversa – complessa, intricata – storia, che molte pietre, molte parole e molti pensieri ha accumulato nella pieghe dei luoghi e del linguaggio.
Tutta questa Calabria non c’è, è vero, nell’archetipo di questa storia, il volume “Calabria” dello stesso Bevilacqua e di Augusto Placanica, della “Storia d’Italia” Einaudi. Ma la serie Einaudi limitava la storia delle Regioni dall’unità in poi. La storia di Bevilacqua è ideologica, si comprende. Tanto più per voler essere comunista quando il comunismo si è dissolto - nel non detto, cioè nella vergogna. Come di chi annaspasse fuori dal suo elemento, sia esso l’aria o l’acqua, o l’ideologia. Ma non era diverso ottantant’anni fa il sussidiario di Alvaro. Il rifiuto della storia è una forma dell’odio-di-sé meridionale.
Questo Sud che si vuole ideologico è invece saprofitico, una malapianta che s’attacca ad altre con le quali s’infetta. Tutto è virtuale al Sud, in Calabria in particolare. Secondo lo schema: il Sud non è Milano – o Roma, o Torino, insomma non è il Nord. Senza chiedersi: che cos’è Milano, o il Nord? Specialmente disturbante è la storia per procura.

Walter Pedullà, Per esempio il Novecento, p. 415: “La storia è nota, lo Stato si colloca socialmente dalla parte opposta, in due modi: prima latitando, poi riportando l’ordine minacciato da un «brigante»”.

Il calabrese Cappuccio, nel racconto omonimo di Domenico Rea, difende con le armi il carcere in cui da ergastolano è rinchiuso per la vita.

I napoletani, e qualche siciliano, si dicono il sale della terra. Si diceva un tempo degli ebrei: sarà per questo che il Sud vaga.

Quella di Vittorini è “Sicilia tradotta” (Sciascia). Vittorini era lui il Gran Lombardo che fantasticava, non approvando il “ritorno al Sud”: “La Sicilia altro non merita che un Federico De Maria”, diceva, un piccolo dannunziano.

Lo dice anche Sciascia: la scuola, le amicizie e il cinema sono – erano negli anni 1940-50 – “la dimensione paesana… della sperduta provincia meridionale”. Ma qual era all’epoca la “dimensione paesana” della non sperduta provincia settentrionale? Il Sud viaggia poco, s’immagina troppo. Anche quando emigra.

Razionalizzare il mistero (Pirandello, Sciascia, nei racconti storici, nei gialli) è complicare le cose. E la complicazione è “la forma moderna della stupidità”, lo riconosce lo stesso Sciascia. “È anche malafede”, dice pure.

Questi i siciliani del Nievo di Sciascia, nel racconto Il Quarantotto: “Io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono… Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto e amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice”. Fatto dire da Sciascia taciturno al Nievo prolisso, potrebbe essere un voto dello scrittore. Ma i siciliani migliori non tacciono, anzi.

Discorso della mafia
Il suo nodo è classista. Sarà anche etnico, ma nella sostanza è classista. La mafia è il commercio del consenso contro affari. Del consenso politico contro affari pubblici. Il consenso politico è oggi il voto, e quindi la mafia è pacchetti di voti. Il nodo (snodo) della mafia è per questo classista: si fa cortese, e finché, controlla i pacchetti di voti decisivi, quelli che spostano la scelta.
Il voto alla (attraverso la) mafia non è un fatto di bisogno. Né lo vince l’istruzione. Da qui la difficoltà di estirparla, essendo gli appalti (spesa pubblica) e l’istruzione i due rimedi su cui l’antimafia ha fatto leva. Posto che la mafia va sconfitta liberando il voto, come ci si arriva? Il voto si libera probabilmente frantumandolo, rendendo gruppi sempre più ristretti, a mano a mano fino all’individualità, padroni del proprio voto. Moltiplicando la concorrenza. Che sembra voler dire moltiplicare la mafia ma in realtà è la strada maestra per scalzarla.

La mafia è terribile in quanto pone una sfida sempre mortale: con essa si è condannati a vincere sempre. E ogni volta che si vince c’è poco onore, il mafioso è merda, la vittoria non ricarica. Per questo la guerra alla mafia è sempre mesta.

Sempre il discorso più “alto” (feroce, duro, eccessivo, crudele) si impone sulla realtà e la suggella, la “fa”. Sul Sud ancora si riverbera il discorso del ventennio terrificante fino alle bombe ai monumenti, in tutta la Sicilia e nell’Italia. Che fu una guerra “civile” e di retroguardia, per lo scardinamento degli assetti affaristici degli anni Cinquanta-Sessanta, l’asse Ciancimino-Lima, in termini politici Fanfani-Antifanfani, cioè la Dc, unico soggetto politico e di potere nel Meridione e in Sicilia in particolare. Forte anche del rapporto biunivoco con la mafia, che la terribilità della reazione rivela. Lo scardinamento portò a una lunga serie di stragi. “Inutili” ai fini mafiosi, se non di una mafia convertita per l’effetto del terrorismo al culto dell’immagine: ad azioni di effetto mediatico, e per l’efferatezza e la cura che necessitano, vere e proprie azioni militari, e per colpire uomini simbolo, difesissimi.

Troppo spesso il discorso antimafia è assolutorio, di se stessi, una copertura. Ha tutta l’aria di esserlo. Quando proviene dagli appaltatori pubblici, dalle imprese dei grandi lavori alle onlus che si aggiudicano i beni dei mafiosi, con relativo capitale di avviamento, consumato il quale si eclissano. Lavorare stanca, si sa. E l’antimafia è troppo bella per poterne dire male. Ma a volte, a Catania per esempio, le cento famiglie che non hanno partecipato al ballo organizzato in piazza dei bambini contro la mafia, si ha forte il sospetto che più di uno ci marcia. Per i venti o trentamila euro del Comune che patrocina la manifestazione, per la carriera, per l’immagine.

I mafiosi sono tutti confidenti, della polizia o dei carabinieri.

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