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martedì 29 luglio 2008

L'Anti-Europa, fra globalizzazione e tribù

È un libro evidentemente composito, forse per questo discontinuo e fragile, sebbene entusiasta. Il programma è impegnativo, l’autore non nasconde l’ambizione: ricentrare l’umanità, che va a onde. Fin dal titolo, l'originale, Un nouveau paradigme, e l'italiano. Touraine era autore, appena dieci ani fa, di un "Come liberarsi del liberismo". Questo Anti-Europa è, indirettamente, la conferma dell’inconsistenza della modernità. Del concetto, poiché la modernità è il reale ora. Di una sociologia che è retorica, presto quindi perenta, e anche ideologia. Mentre il cambiamento è industriale e politico. È stato militare sessantacinque anni fa, ma da allora si è scavato. È ora un dollaro l’ora, per quattordici ore al giorno. E questo si considera ancora abbondanza, la miseria del Terzo mondo è inimmaginabile. È la fine della storia, sì, dell’eurocentrismo.
L’esito è zigzagante, mai diretto come una freccia, come un programma vorrebbe. Ci sono anche errori e incongruenze. “Gli Usa da due anni non cessano di giustificare l’unilateralismo”, cioè dal 2003, dalla guerra all’Irak. No, gli Usa non si giustificano dal tempo di Kissinger, trentacinque anni fa, se non di Eisenhower. La globalizzazione è posta alla pari dell’ideologia del mercato e dell’individuo, fattore di disintegrazione, mentre invece è un disegno politico. E rivoluzionario: il mondo è plurale. Touraine lo sa, i miti di Hollywood si fabbricano anche a Londra, Parigi e Tokyo, ci sono ovunque ristoranti stranieri, molte tradizioni ritornano, anche questa è una novità, mentre i sindacati sono morti che parlano. Insomma, la globalizzazione moltiplica i soggetti, Touraine lo vede. Ma conclude che la mondializzazione è un modo capitalistico estremo di modernizzare, che non ha più una sua società, come un tempo ci sono state la società feudale e quella industriale. Il “vuoto sociale” è possibile? “Nessun tema è oggi più diffuso”, si giustifica Touraine, ma che pensarne?
Sul tema principale Touraine oscilla. Riconosce che “la globalizzazione è caratterizzata dalla circolazione accelerate dei beni e servizi, ma anche delle opere e pratiche culturali…, e delle rappresentazioni sociali e politiche… Un modo di trasformazione del mondo che resta multilaterale”. Ma al punto da dare spessore all’altermondialismo, a Seattle e Porto Alegre, che furono due vacanze alternative: “L’altermondialismo occupa un posto altrettanto importante oggi che il socialismo nei primi decenni della società industriale”.
La globalizzazione è un fatto politico e storico, di allargamento mondiale del mercato, e di spostamento del baricentro della storia dall’Atlantico al Pacifico, dopo alcuni millenni di storia eurocentrica. Questo fatto è dirimente, ma a Touraine non interessa, interessa il “quadro”. Vede così la globalizzazione da sinistra, per dire, e anche da destra. A metà libro ne dà questa ragione: “Il nostro mondo è dominato dalle forze incontrollate del mercato, della guerra e della violenza”. Roba insomma da fine del mondo. Ma questo mondo è anche “sempre più sollecito delle scelte morali”.
Touraine è contro la concezione critica, che al solito favorisce “il trionfo della dominazione” che critica, magnificandone la potenza, e contro il pensiero neo liberale, di un edonismo debole. Ma senza criterio, e senza scopo: “La sociologia critica ha scoperto con ragione nel funzionamento della società più dominazione che razionalità”. C’è ingenuità nel suo progetto. C’è coraggio: è il concetto di modernità che va rinnovato con quello di società, “non dobbiamo più pensare socialmente i fatti sociali”. Che non è possibile, anche se è un necessario approccio diverso. Ma l’antidoto alla disgregazione e alla dominazione è l’individualismo bene inteso. Quale? La vecchia libertà? L’interesse? Un fondo di razionalità, sia pure la mera sopravvivenza?
Il libro è tutto ai punti 8 e 9 delle “Conclusioni”. La pagina risolutiva è a metà del libro, all’inizio della seconda parte, argomento “Il soggetto”: “Abbiamo a lungo cercato il senso della nostra vita in un ordine dell’universo o in un destino divino, in una città ideale o in una società d’eguali, in un progresso senza fine op in una trasparenza assoluta”. Ora “tutti i cieli si sono vuotati della loro divinità”. Ora costruiamo in noi stessi, in quanto cittadini, lavoratori, esseri culturali, bellicosi, sessuati. Insomma, il programma d’azione della vita ordinaria, quale si è sempre fatta.
Distinto è, con la globalizzazione, il ritorno del comunitarismo - del tribalismo si sarebbe detto un tempo con più verità. Anche sotto la forma diluita che Touraine patrocina dei “diritti culturali”, da osservante e credente della Francia repubblicana: “Bisogna risolutamente difendere la cittadinanza contro il comunitarismo”. La vera modernità è il soggetto, che reca diritti culturali. Insomma, il multiculturalismo, che è altrettanto inconsistente che il pluralismo politico, quando non è una tautologia – è una maniera di negazione di sé, dello stesso soggetto. Touraine è personalmente sensibile a questo tema, avendo scoperto nel 1940, come confessa in una pagina, l’inconsistenza del nazionalismo, e alla liberazione “la mediocrità che era stata del mio paese prima e durante la guerra”, e per questo si è aperto al mondo, gli Stati Uniti, il Canapa, l’Italia, la Spagna, e poi a lungo e soprattutto l’America Latina. Inoltre, è dal Sessantotto che insegna l’emergere dei bisogni, i diritti culturali. Disse allora che l’ispirazione principale del movimento degli studenti, e quindi dei giovani, era di tipo culturale. Un’esperienza, disse poi, soffocata, soprattutto all’università, sotto il verbiage marxista rivoluzionario, che dava la preferenza alla “parola morta” rispetto all’“azione viva”. Ma non ha in realtà la soluzione, il giusto mix, il nuovo punto di equilibrio direbbe l'economista marginalista.
Touraine cita di passata Belgio e Olanda, in quanto società multiculturali che le differenze riconoscono come “pilastri”. Che sono però società palesemente tribali, e un esempio negativo, malgrado spendano molto la parola tolleranza. La squadra dell’Ajax per un secolo è stata la squadra degli ebrei. In Belgio le due comunità non si parlano tra di loro neppure per le esigenze minime, come fare un governo.
La cittadinanza Touraine difende anche contro le divisioni di genere. Ma per cadere nella nozione ambigua di queer: “Le più grandi femministe, Judith Butler in testa, hanno denunciato l’idea di gender, e hanno cercato di riabilitare tutte le forme minoritarie (queer) di vita sessuale”. Tutte le forme minoritarie imponendo come forme primarie, il che è una della cause primarie dell’insofferenza della vita associata oggi, delle derive politiche populiste, dell’intolleranza verbale, se non sociale e razziale. La democrazia si qualifica per la protezione delle minoranze, ma non al punto da scompaginare le maggioranze.
Forse i piani di lavoro delle componenti del libro erano diversi, questo può spiegare la confusione. Il punto di partenza è la rottura del patto sociale: delle classi e i movimenti, e degli agenti della socializzazione, la scuola e la famiglia (non dello Stato sociale, la sanità, la previdenza, l'istruzione?). Dopo la società politica e poi quella economica, l’Occidente moderno si organizza su un nuovo paradigma prevalentemente culturale. In ragione dell’informazione e dell’informatizzazione. Dopodichè tutti i nodi restano aggrovigliati.
È questa modernità il mondo virtuale di Baudrillard? Lo è, ma non nel senso di Baudrillard, di un mondo vuoto: la virtualità è tosta. L’11 settembre, un’azione militare limitata, e anzi un atto di terrorismo, è più di una guerra vinta proprio in ragione della sua virtualità, della diretta televisiva, è un evento secolare, millenaristico. Gli Stati Uniti avevano perduto una guerra durissima, contro il Vietnam, e quella a basso voltaggio contro Cuba, e tutto era rimasto come prima. Anzi, il presidente Kennedy che ne fu l'artefice è tuttora un eroe. E gli Usa sconfitti hanno semplicemente spazzato via il comunismo vincitore, europeo e asiatico. Ma l’11 settembre è indelebile.
Dove Touraine incide è sotto forma di pamphlet anti-Europa. Uno stato senza nazione. E anche senza consistenza: “L’Europa, ingrandendosi, si ripiega su se stessa”. L’Europa che s’è fatti fare i massacri dell’ex Jugoslavia non è una società e non è uno Stato: “L’indebolimento delle identità nazionali non è compensato dalla formazione di un’identità continentale”. Senza alcun peso politico, specie nel Medio Oriente: impotente militarmente, in diplomazia, nella cultura. Touraine confessa di sentirsi più di casa a New York che a Parigi: “Tutto, nel metodo seguito fino ad ora per costruire l’Europa, ha fatto ostacolo a che l’Europa sia uno Stato democratico”, un cosa nuova, moderna. Un continente di pensionati.
Un libro entusiasta e confuso. Se non si condivide la tesi che la sociologia è quella cosa che non si sa cos’è. Non ultimo perché non è teorico e non è pratico, è solo ripetitivo nell’annuncio della nuova soggettività. Qualcosa di già sentito, che Touraine però vuole il rovesciamento della storia: ciò che la modernità ha diviso e negato, nel suo disegno di razionalità semplificante, espressione del potere, ora si ribalta nell’avvenire del soggetto ritrovato. Ma il nuovo paesaggio sociale è noto ai più: centinaia di milioni sono stati licenziati a cinquant’anni, e qualche miliardo vive da precario, anche generazionalmente cominciano a essere di più quelli che non hanno vissuto la società protetta. Ma sembra sempre quello cubista, dei piani disgiunti, continua a mancare la vecchia prospettiva, la tela di fondo.
Alain Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Il Saggiatore, pp. 283, € 22.

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