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martedì 29 settembre 2009

Il pazzo che si crede Pizzuto o la filologia inutile

Una lettura sterile. Di “Così” a dieci anni dalla prima pubblicazione, recuperato da Antonio Pane, che da Firenze coltiva con passione la sicilitudine, al recupero autorizzato “da un codicillo testamentario”, e a sessanta dalla composizione. Di “Sul ponte di Avignone”, recuperato venticinque anni fa per Mondadori da Pedullà, che lo dice “il primo romanzo della seconda vita di Pizzuto”, già pubblicato settant’anni fa, con lo pseudonimo di Hais. Impossibile quella di “Testamento”, a quarant’anni dalla prima pubblicazione nel Saggiatore con una nota superlativa di Contini, che ora si ripubblica sempre per la cura di Pane, in quella che Polistampa porta avanti come l'opera omnia dello scrittore-questore palermitano.L’ultimo Pizzuto, “la seconda vita” della scrittore, è un caso di Spätstil, il tardo stile comune a molti compositori tedeschi e qualche scrittore, dirompente ma più per essere ermetico, o insomma involuto: più che l’apertura di nuovi fecondi percorsi in genere segna la stanchezza.
L’unico interesse è la luce retroflessa che Pizzuto, col suo enorme credito, getta sulla migliore filologia del Novecento, Debenedetti, Nencioni, Contini, Jacobbi, Bazlen, Montale, Luzi, Pedullà. Si può dire che non ci sia stato patrocinante eccellente che non si sia esercitato, con entusiasmo se non con gusto, su Pizzuto. “Scoperto” da Lerici-Bazlen con “Signorina Rosina” nel 1959, a 66 anni, dopo lunghe e insistite peripezie, dieci anni dopo ha già un suo capitolo nella “Letteratura dell’Italia unita 1861-1968” che Contini pubblica nel 1968. Con un’ampia presentazione, in questa stessa storia della letteratura, di “Testamento”, che uscirà per il Saggiatore nel 1969. La sintassi di Pizzuto, dice il filologo principe, “rammenta” la classicità, “ma nell’essenziale porta addirittura lontano dall’indoeuropeo, per quell’attenuazione e tendenziale soppressione dell’opposizione tra nome e verbo che qualifica il cinese e lingue affini” – tre “–one” in una riga dicono l’attenzione di Contini, certo sperduto tra il cinese e gli affini.
Letto tutto Pizzuto cosa resta? Parole in libertà. “Sul ponte di Avignone” è una storia reale di abiezione, a fronte della complice finzione sveviana. Ma non più di tanto, su una traccia struggente da “Tre orfanelle”. Lo scrittore non maschera il neo realismo, la stucchevole commedia all’italiana da disgrazie cumulative: “Sul ponte” è l’insostenibile pesantezza della bigamia, che si stiracchia per anni e generazioni, una forma di egoismo incredibilmente selvaggia, un personale tsunami - con gli irritanti palermitani “esci il piedino”, “uscì il braccio” (un miracolo è semmai la prefazione di Pedullà, di attenzione, cura, misura, ma è la enensima manifestazione del critico che fa l'autore).
Che si possano utilizzare le parole senza senso, neppure onomatopeico (musicale), per lessico grammaticale o sintattico, questo è insensato. L’espressione compiaciuta dell’inespressione, la “lezione” di Joyce capovolta, e quindi delle avanguardie, il futurismo, il surrealismo, le macchine letterarie. Forse è un effetto dell’antindustrialismo (antiumanesimo), comune alle prefiche del Diamat e del fascismo, di cui Pizzuto fu funzionario più che volenteroso alla Polizia Politica, non sapendo che la macchina in sé è sterile. In uno dei tre, forse in “Testamento”, c’è il pazzo che si crede Pizzuto, e questo è tutto.
Antonio Pizzuto, Testamento, Polistampa, pp. 312, € 23
Così
Sul ponte di Avignone

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