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giovedì 25 febbraio 2010

Arduo per Obama smarcarsi dalle banche

Non la riforma sanitaria, né altri errori o posizioni controverse di politica interna o internazionale, ha sgonfiato il miracolo Obama, ma la sua polemica contro le banche, il mancato abbandono, dichiarato, pubblico, di ogni velleità di controlli sul mercato. Il declino degli indici di popolarità è stato immediato a gennaio, quando il presidente Usa ha criticato i superbonus dei banchieri, ha chiesto una tassa a conguaglio delle perdite abnormi subite dal Tesoro per i salvataggi (120 miliardi), e ha proposto una legge che vieti alle banche la speculazione, e ne riduca il monopolismo.
La reazione - una caduta degli indici di popolarità su misure che, se non altro, sicuramente sono populistiche - è specchio della polarizzazione della politica sulla finanza, e dei modi di formazione dell’opinione, che è da qualche tempo per nulla libera, e anzi scopertamente dipendente dai padroni del denaro. Così come del resto la politica, il cui finanziamento è stato modificato dai Congressi di Clinton e di Bush, dopo il lungo limbo seguito agli scandali di metà anni Settanta, per favorire il condizionamento del big business.
I media non discutono della liceità o bontà politica delle decisioni presidenziali. Ne riferiscono tuttavia senza apprezzamento, che nel caso dei superbonus dei banchieri della crisi e dei paletti alla speculazione sarebbe stato solo ovvio. Anzi ne traggono motivo per dare la popolarità di Obama in calo. Con qualche appiglio: per esempio il passaggio del seggio senatoriale ereditario dei Kennedy ai Repubblicani. Ma senza chiare motivazioni. In altro momento la perdita del seggio non sarebbe stata decisiva di niente. O sarebbe stato imputato all’estinzione politica dei Kennedy stessi, o ai mutamenti sociali della costituency, o all’effetto della crisi che sempre punisce elettoralmente i governi in carica. Non, però, nel caso di Obama, che si fa cadere nei favori socì come lo si era innalzato, oltre ogni merito a parte la giovinezza e l’abbronzatura, che lo spontaneo favore popolare fece all'improvviso preferire, dal partito Democratico e dai finanziatori, alla già prescelta Hillary Clinton. Il presidente lo sa, che dice: “Meglio governare bene anche se solo per quattro anni”. Tanto più avendo confermato Bernanke alla Fed con l'esplicito compito di regolare le banche, anche dando la caccia alla speculazione pregressa, delle banche genere Goldman Sachs, che creano e impogono gli strumenti finanziari con i quali poi esercitarsi liberamente al bersaglio.
A partire da Reagan, e poi con Clinton, la politica americana si è legata alla finanza, il big business condizionante è Wall Street. Da ormai trent’anni, eiettati gli indigesti Nixon e Carter, politici populisti, non legati agli interessi, la politica si è vincolata come si suol dire al mercato, e cioè agli interessi finanziari. La lunga presidenza Clinton sarà ricordata in particolare come un ininterrotto, forse il più lungo nella storia dei cicli, boom di Wall Street. Il riallineamento delle leggi sul finanziamento ai partiti ha prodotto una stabile dipendenza dai grandi interessi finanziari, le loro fondazioni, i loro think-thank, e gli stessi media. Obama, partito come uno dei tanti outsider ma subito “portato” dall’America provinciale, e patrocinato in un secondo momento come l’uomo nuovo o l’uomo della cosa giusta, è stato riportato dalle responsabilità di governo a riprendersi il ruolo di outsider, e questo non gli giova.

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