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domenica 19 maggio 2013

Il deficit di rappresentanza è Trilaterale

Si discute dell’efficienza dei sistemi politici partendo da presupposti sbagliati. Che poi sono uno: la crisi della democrazia. La “post-democrazia” (Colin Crouch), la “mucca pazza della democrazia” (Alfio Mastropaolo),  la “democrazia liquida” (Baumann?), il populismo, e il berlusconismo-grillismo, o mediatizzazione, la politica dei media e i sondaggi.
Ma la discussione si fa su basi false. Non innocenti, comunque a fini di parte, ideologizzati. Le sue basi sono nella Trilaterale, il consesso di uomini e enti del capitalismo promosso nel 1973 da Nelson Rockefeller, uomo politico, repubblicano liberale, della famiglia dei petrolieri. Che pose al centro del dibattito le forme della rappresentanze nelle società industriali avanzate. In una col parallelo, e affine, dibattito sui limiti alla crescita del Club di Roma, animato da Aurelio Peccei, ex manager della fiat in Argentina, ma centrato sulle proiezioni di Leontief e dell’incipiente industria Usa della conservazione.
La Trilaterale era una reazione alla contestazione (da Hannah Arendt già studiata nella forma della “disobbedienza civile”), che aveva fatto “perdere” la guerra del Vietnam, e in previsione del multicentrismo, di quella che sarà chiamata la globalizzazione. “La crisi della democrazia” fu nel 1975 il primo rapporto della Trilaterale, redatto dal direttore Zbgniew Brzezinsky, centrato sulla “definizione della «governabilità»”. Brzezinsky, futuro segretario di Stato,  portava il “Federalist” a supporto, con John Stuart Mill e Ralph Dahrendorf, per evitare quella che chiamava la “democrazia anomica”, al meglio un “consenso senza scopo”. Il teorico del raggruppamento era Samuel Huntignton, famoso all’epoca per vaticinare il conflitto di civiltà, tra l’Occidente (Usa-Europa) e il resto del mondo. La Trilateral dubitava che le democrazie fosse governabili, insidiate dall’anomia. E ipotizzava che  bisognasse “limitare” la democrazia, che gli affari sarebbero andati meglio per tutti se lavoratori, neri e poveri avessero contato meno. Puro Orwell, “1984”: “L’aumento della ricchezza minaccia le gerarchie mondiali”.
La democrazia è in crisi in Italia
La “crisi della democrazia” viene dunque da lontano, e ha radici conservatrici. È anche limitata e non universale. In Europa solo l’Italia se ne può dire affetta. Altrove le costituzioni e le rappresentanze politiche reggono, e prendono anzi decisioni importanti. Per esempio nella Gran Bretagna di Margaret Thatcher, e poi in quella di Blair, che si sottostima, o nella Germania di Schröder. La democrazia funziona in tutta Europa, e quindi funziona, poiché stiamo parlando di un mondo ancora chiuso seppure globalizzato: le democrazie saranno alcune diecine nel mondo, e per due terzi sono europee. La Trilaterale ha del resto cessato presto le sue riunioni, avendo gli Stati Uniti dopo nemmeno dieci anni reintegrato la marcia del consenso nazionale e dell’egemonia senza contestazioni. Fino alla formidabile “prova democratica” dell’elezione di Obama nel 2008.  
La crisi è un’anomalia italiana, dunque. E ha cause precise. Che però non si vogliono vedere, per primi gli studiosi di scienza politica. Si dice che la causa è Berlusconi. Ma Berlusconi è un effetto e non la causa. Lo è sempre stato ma nelle elezioni del 24 febbraio in modo incontestabile. Già prossimo al ritiro, se fosse stato al Giro d’Italia, fu portato vincente al traguardo da quella che è la vera causa della crisi italiana: il postcomunismo.
L’Italia aveva un enorme partito Comunista, molto più imponente e importante della sua pur vasta base elettorale, e lo mantiene, nelle forme della faziosità, dell’intolleranza, dell’odio, dell’oltranzismo. Una orwelliana “politica dell’odio” che ha avvelenato senza ipocrisie le votazioni presidenziali.Col sostegno infetto di una giustizia ancora fascista, di toghe e ermellini, al di sopra delle leggi. E con quello truffaldino dei media, la cosiddetta opinione pubblica, che al meglio è autoreferente: la Rai, che è il nodo del traffico d’influenze,  e la grande editoria, di Mediobanca, Bazoli, Fiat, Caltagirone, Confindustria e, curiosamente, lo stesso Berlusconi (Mondadori, Mediaset). All’insegna del “tutto pur di non essere governati”: l’Italia come zona franca, di bande e banditi. 

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