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lunedì 6 aprile 2015

Perché non si è trovato un solo nazista dopo la guerra

“È a mio avviso un fatto incontrovertibile che la gente è spesso tentata di fare il bene e deve fare uno sforzo per compiere il male”. Hannah Arendt è generosa. È anche in difficoltà. Sant’Agostino col quale si consola, inventore filosofico della volontà dopo san Paolo, le apre un baratro: “Nulla è in nostro potere più della volontà stessa”  Lo apre a lei come a tutti: il male è tutto nostro.  E tuttavia si perde nel baratro tra il volere e non potere, o viceversa, e tra l’Uno e il Due in cui siamo divisi, ma non trova la “ragione sufficiente” per cui, come dice nel proposito iniziale, nessun tedesco è stato nazista dopo la sconfitta.
La vita e le opere della filosofa ci dicono perché: il cordone ombelicale con la “madre Germania”, al fondo di ogni inevitabile realismo - e dello spiritaccio di cui pure non si priva. Ma da Socrate a Nietzsche, via san Paolo, sant’Agostino e Kant, questa sua galoppata tra la volizione e la morale introvabile, ammirevole prova di forza, lascia senza argomenti. “Per giustificarmi”, dice alla fine ai suoi studenti, “vorrei adesso rinfrescarvi la memoria su ciò che ho detto durante la prima lezione, quando vi ho disegnato a grandi linee il desolante paesaggio di esperienze reali sul cui sfondo ho svolto fin qui le mie considerazioni”. Ma né a grandi né a piccole linee, nemmeno sullo sfondo, la memoria è tratta fuori dalla siccità.
L’attacco è mordace. L’“allineamento” (Gleischshaltung), o conformismo, che fu il marchio del nazismo, è la “nuova” morale. A vent’anni dallo sterminio – è il 1965-1966 - “lo si è coperto con qualcosa di cui in realtà è assai più arduo parlare e con cui è pressoché impossibile scendere a patti”. È l’orrore stesso, “nella sua nuda mostruosità”: l’Olocausto ha soppiantato la colpa, quotidiana, generale. D’altra parte, “è un peccato che è diventato sempre peggiore con il trascorrere degli anni, in parte perché i tedeschi per lungo tempo si sono rifiutati di processare gli assassini che ancora si celavano tra loro, e in parte perché tale passato non può essere domato e dominato da nessuno”. Ma alla fine della trattazione non ne sappiamo di più. Era un modo per Hannah Arendt di reagire e tirarsi fuori dalle polemiche sulla “banalità del male” - le corrispondenze al “New Yorker” sul processo Eichmann in Israele  - senza rinfocolarle.
Ego te absolvo, Germania
La “legge” morale c’è. E non c’è, non si sa dove cercarla. Socrate e Kant sì, ma. Paolo e Agostino sì, con la volontà, ma. Una formidabile digressione restano questi corsi, tenuti nel 1965-1966 alla New Yorl School for Social Research e all’università di Chicago, sulla morale introvabile. Senza più menzione della Germania, del popolo tedesco oltre che dei suoi gerarchi, e della sua incredibile guerra contro l’umanità. Una digressione lunga e lenta, per evitare di fissare quella realtà. Un saggio, anche da questo punto di vista, molto “tedesco”. È questo il vero fondo del “male banale” antiarendtiano: non l’ebraismo tradito, ma il germanesimo irrinunciabile. Naturalmente non detto, siamo tutti tedeschi, ambiremmo. “La malvagità è per Kant un absurdum morale”, cose di questo genere. Fino alla volontà di potenza di Nietzsche come creatività, energia creativa. Monda da qualsiasi sopraffazione.
La filosofa ha messo le mani avanti: “La nostra è la prima generazione dell’era cristiana a non credere più in «futuri stati»”, nell’aldilà. Non credo perché non credo…. Ma è per non andare a fondo – rimuovere il non detto, svegliare il can che dorme, girare i coltello nella piaga, etc. Nel mentre che ingranava qualche marcia indietro, quatta quatta: “La morale concerne l’individuo nella sua singolarità”. Non dipende “da un comando di origine divina”, ma non dipende neppure “dagli usi e costumi”.
Tutto vero naturalmente, ma il problema non sarebbe di natura teoretica. Malgrado il conforto, oltre che di Socrate, di Cicerone e Meister Eckhart, tanto più robusto per essere i due agli antipodi. E con qualche lampo di verità: “Il peggior male è quello commesso da nessuno, cioè da esseri umani che si rifiutano di essere persone” – o non possono, più animali che uomini, perché no, i Brusca, gli Spatuzza, i tanti “willing executioners”, le SS fuori dal mito.
Divagare vale la pena per altri versi. “La scoperta della volontà coincide con la scoperta della libertà come problema filosofico, distinto dal fatto politico della libertà”. Una questione, “la libertà del volere”, il libero arbitrio,”che gioca un ruolo tanto importante nel pensiero filosofico e religioso cristiano”, assente “tra i filosofi dell’antichità”. Non per un fatto cronologico: Epitteto è contemporaneo di Paolo. Anche la colpa che non si può dire: la tradizione, da Socrate a Kant, esclude il male deliberato. Nel catalogo dei vizi, che contempla “la golosità e l’accidia (peccati tutto sommato veniali minori)”, il sadismo “curiosamente manca”.
Il “male banale” non è senza argomenti – anche all’infuori di quello delle comunità ebraiche in guerra che Arendt denunciava: “la nient’affatto orribile ma disgustosa esperienza” del male quotidiano. È il leitmotiv di Primo Levi: la possibilità per l’uomo comune di commettere il Male, anche quello maiuscolo. Che sembra solo ovvio, ma non per gli storici e i filosofi, che vogliono pesare le parole. La testimonianza di Levi è persuasiva, venendo dallo scrittore più “autentico” (heideggeriano…) dei lager: “Non ho visto mostri”, usava dire. E “omuncoli volgari e vigliacchi” li ricorda nella protesta contro i film in voga, del carceriere SS bello, biondo e pervertito, di cui le vittime s’incapricciavano: “Non erano dei mostri, né dei bellimbusti pervertiti; erano dei funzionari dello Stato, prima pedanti che brutali”, e “insensibili all’orrore quotidiano in mezzo a cui vivevano”.
Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, pp. 115 € 10

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