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lunedì 12 agosto 2019

Contro la cultura di massa - riedizione

L’“oppio dei popoli” classico è la religione di Marx. Oggi sarebbe la cultura. L’offerta culturale, non più domenicale o festiva come la religione ma feriale, comune, invasiva. Con lo stesso effetto, second Fofi: di ottundere il senso critico e non di affinarlo o acuminarlo.
La cultura non salva più. Si diffonde ma come esibizione, non è critica, e non ha anzi capacità di giudizio.L’intellettuale è scomparso, quello che c’è è un figurante, per commenti di nessuno spessore e litigi ai talk-show, tanto per “caricare” l’attesa della pubblicità.
Senza trauma,la cancellazione è stata senza scossoni, e anzi moltiplicando la “cultura”. Se tutto è cultura, ovvio, non c’è più cultura. E questo è quello che è avvenuto. Eventi di ogni tipo si susseguono, dalla sagra della poesia ai festival della mente, i premi, le mostre, le tribune mediatiche, gli inserti culturali, le riviste culturali. Tutto melassa. Non più antagonizzati gli  intellettuali, e anzi protagonisti, ma di nulla. A condizione di non dire, e probabilmente non sapere, nulla.
Senza costrizione anche. C’è una voglia di andare, sia pure in folle, sull’onda del narcisismo imperante, che è il segno del millennio: “Io penso, io scrivo, io recito, io filmo, io disegno, io canto, o ancora io mi faccio un blog, io apro un sito – droga la cui diffusione è al massimo – e mi basta questo per illudermi di essere qualcuno, di esistere in quanto IO”.
Il narcisismo, per la verità, non è nuovo, se non nella forma: oggi per la flessibilità a nessun costo della rete. La cultura spettacolizzata, di questo si tratta, non piace a Fofi. Unitamente, nel sottofondo, al chiacchericcio similculturale di internet, che in effetti è infernale. Ma di questo Fofi non tratta. Né del genere selfie che monopolizza l’editoria: tutti racconti di se sessi, anche di inesperienze, o di nessuna esperienza. Lo infastidisce l’organizzazione culturale, della cultura “venduta”, un prodotto fra i tanti. Della cui diffusione ci si può complimentare, ma sapendo che è una maniera per ottundere la vera cultura, che è esercizio critico.
Fofi è figlio ignoto degli anni 1960, e delle polemiche, anche auguste, c’era ancora la Scuola di Francoforte, contro la cultura di massa. Battaglia che non fu risolta, perché gli schieramenti non erano definiti, e confuso era pure il motivo del contendere. Lo stesso oggi. Le presentazioni, i premi sono inutili? Si. Però fanno passare due ore in libreria o in una sala conferenze invece che ai giardinetti, e qualcosa in qualche modo resta, se non altro un senso di partecipazione a un rito. I festival della mente sono inutili? Non sono risolutivi, e forse non insegnano niente, ma fa impressione, perlomeno a Roma, che sei o settecento persone, quanti ne contiene la sala Petrassi al Parco della Musica, paghino cinque euro per ascoltare una conferenza, più o meno dotta; qui non è solo un passatempo, alternativo ai giardinetti, con le orecchie tappate, in attesa del bicchierino.
Ma è soprattutto dell’industria culturale che Fofi è scontento. Della “fabbricazione” dei libri e degli autori, della lettura illeggibile dei settimanali culturali, di un’industria autoreferenziale. Anche questo non è una novità: l’industria ha sempre cercato di fare i suoi affari.
C’è una certa ciclicità nella condanna, tra secondo Ottocento e primo Duemila. Quello che è nuovo, e su cui Fofi ha ragione, è che oggi non c’è un’alternativa. Idee, redazioni, critici in grado di leggere criticamente il mondo, anche in forma romanzata, invece che molcirlo nelle sue brutture - che modernamente, nel linguaggio corrente, diventano bellezze. Il problema è che si è perso il linguaggio e la capacità critica.
Goffredo Fofi, L’oppio del popolo, eléuthera, pp. 168 € 16

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