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martedì 4 agosto 2020

Secondi pensieri - 426

zeulig

Contemporaneità – “Non si è può essere contemporanei per tutta la vita”, il giornalista Rai Vincenzo Mollica fa dire a Camilleri in una della loro conversazioni. Che sembra logico, è invece no: il contemporaneista lo è per tutta la vita, è il dna delle avanguardie – a meno di non dirsi contemporanei per essere antichi, per opportunismo, se utile alla carriera.  

Diritti dell’uomo – “I diritti dell’uomo non sono altro che una difesa del diritto alla debolezza”. Romain Gary, “Il senso della mia vita”, 110.

Heidegger - È, si potrebbe dire, l’ultimo capro espiatorio. “Der Spiegel”, che nel 1982 fece la copertina Nietzsche = Hitler – lo poteva perché i lettori sapevano di Nietzsche – oggi farebbe a maggior ragione Heidegger = Hitler. Non lo fa perché “nessuno” sa chi è Heidegger, e non ha la curiosità di informarsi, ma anche perché non avrebbe senso. Heidegger era un contadino svevo, con selezionate, poche, letture, che voleva essere un poeta.

Fra i tanti Heidegger non c’è un Heidegger e Wagner, che pure sembrerebbe di primissimo interesse. Molto di Heidegger è già in Wagner. Il destino istoriale, il Volk, con tutti gli attributi, e il destino (“Quaderni neri”) separato degli ebrei.

Hölderlin - Un sorta di “morto repubblicano” con Heidegger – la forma di esecuzione adottata dalla Repubblica francese  Nantes, detta “matrimonio repubblicano”, in cui il condannato veniva buttato in acqua legato a un cadavere. Nel senso specifico che di Heidegger resta vittima, da lui affondato, se non insieme con lui. A partire dalla conferenza romana a villa Sciarra del 2 aprile 1936, all’Istituto Italiano di Studi Germanici voluto da Gentile, “Hölderlin e l’essenza della poesia”. Il Poeta del Verbo,  Dichter della Dichtung, il Dettatore, quello che apre, avvicina, al “Dio ignoto”. Un Ersatz in realtà, un surrogato: la poesia invece della filosofia, implicitamente impossibile.
Hölderlin o dell’ineffettualità del linguaggio. Dell’insignificanza, del linguaggio concettuale. O della poesia per comare l’insufficienza del linguaggio filosofico. Testimone involontario – sicuramente non interessato, anzi prima vittima - del fallimento di “Essere e tempo”, dell’avanzata, l’attacco, sul Dasein. Della Seinsfrage, la domanda di essere, di senso, impossibile e comunque indecidibile.
O, altrimenti, Hölderlin è semplicemente il Vico che Heidegger non ha conosciuto – degnato conoscere.

Identità – Un mito, così la vuole, d’acchito, Donatella Di Cesare avviando il suo “Marrani”: “Con loro implode e si frantuma il mito dell’identità”. Da cinque secoli dunque, o sei, da quando la condizione marrana si è dichiarata? Una lettura forse storicamente superficiale (a petto dello stesso  perdurante ebraismo, che Di Cesare dice costante sotto il marranismo), ma certo contemporanea. Se nessuno si vuole più nessuno. Non si rappresenta infatti più Pirandello, dato che lo si vive, modestamente. Con le barbe, i tatuaggi, il no gender, l’indifferenza anche, la sottomissione al dunque - si veda la fascinazione per la Cina, dove ogni fiato è controllato.

Si rilegge riproposto dal “New Yorker” un vecchio saggio di Lionel Trilling, la recensione nel 1949 del nuovo romanzo di Orwell, “1984”. Che Erin Overbey può così sintetizzare: “Trilling trovò il capolavoro distopico di Orwell «profondo» e «terrificante»”. Ma, si può aggiungere, in qualche modo distorto. “Orwell concorda che lo Stato del futuro affermerà i suoi poteri distruggendo gli spiriti”, scriveva Trilling, ma con la forza, mentre la persuasione è più probabile: “Ma crede che gli uomini saranno forzati,  non indotti, nel disarmo intellettuale. Che saranno disumanizzati non dal sesso, il massaggio e gli elicotteri privati ma da una vita marginale, di deprivazione, noia, e incubo del dolore”. Da massaggio a messaggio, e da elicottero alla macchina automatica (intelligente) di Elon Musk, sembra tutto scritto da Trilling. 

Lusso – “Un bisogno del bisogno”. il paradigma paradossale è in Wagner, “L’opera d’arte dell’avvenire”: è un bisogno immaginario, artificiale, indotto con applicazione per alimentare desideri e bisogni inappagabili, benché superflui: “Questo demone, questo bisogno insensato senza bisogno, questo bisogno del bisogno, questo bisogno del lusso, che è il lusso stesso, regge il mondo”, etc. – “è l’anima dell’industria che uccide l’uomo per usarne come di una macchina”.

Machiavelli – “Il Principe” un manuale di resistenza, surrettizio – nel mentre che insegna ai tiranni come difendersi? È l’ipotesi di Spinoza, del “Trattato politico”, il secondo che l’antipolitico Spinoza scrisse. Supercritico di fatto in tema di filosofia politica, non considerando degna di attenzione, si sa dalla corrispondenza, da una lettera a Hugo Boxel, Spinoza “l’autorità di Platone, di Aristotele e di Socrate”, ovvero le più tradizionali auctoritates filosofiche, preferendo piuttosto le parole di “Democrito, Epicuro, Lucrezio o qualche altro atomista”, Spinoza volle scriversi da sé la sua scienza politica, all’ingrosso e in dettaglio, con due trattati, l’attro è il “Tractatus theologico-politicus”. Spinoza si riferisce a Machiavelli nel “Trattato politico”, al cap. X, il penultimo, su aristocrazia-principati, come alll’“acutissimo fiorentino”, di cui cita un passo dei “Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio”, sulla necessità di emendare (riparare) di tanto i tanto i regimi politici, rinfrescarli, oggi si direbbe ammodernarli, aggiornarli, al cap. I del Libro Terzo: “A volere che una sètta o una repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio”. Ne cita un passo probabilmente adattato, leggendo Machiavelli in traduzione, che non si ritrova nell’originale – ma ne sintetizza bene il ragionamento: “Una repubblica ha aggiunto quotidianamente qualcosa, che periodicamente necessita un rimedio”.

Del “Principe” invece, in precedenza, al par. 7 del cap. V, “Sullo stato migliore di un governo”, Spinoza tenta una lettura in codice, come un avvertimento a tutti i resistenti, i cospiratori contro il tiranno. “Su quali mezzi un principe, la cui sola motivazione è la passione del potere, dovrebbe usare per imporre e mantenere il suo dominio, l’ingegnosissimo Machiavelli è è dilungato, ma con che disegno non si sa”, comincia Spinoza: “ Se per un buon disegno, come si dovrebbe pensare di un uomo di cultura, sembra che voglia dimostrare con quanta poca perspicacia molti tentano di rimuovere un tiranno”. E spiega anche perché. Opina infatti, sempre in breve nello stesso capoverso, che Machiavelli intende mettere in guardia dall’affidare le proprie sorti a un uomo, perché questi necessariamente diventerà un tiranno, sentendosi inviso, ai molti o ai pochi non importa: “Inoltre, (Machiavelli ) probabilmente voleva mostrare quanto cauta una grande moltitudine dev’essere prima di affidare il suo benessere in assoluto a un uomo, il quale, a meno che nella sua vanità non pensi di essere gradito a tutti, deve vivere nella paura quotidiana di complotti, e quindi è obbligato a occuparsi prevalentemente del suo proprio interesse – così come, per la moltitudine, occuparsi di complottare contro piuttosto che di usarlo per il proprio interesse”. 

Natura – La nostra è una “natura-libro” – Joseph Roth, “Le bettole di Berlino”, 11-12, una “«natura concetto», la concezione della natura”. Vediamo, pensiamo la natura come ci è stata raccontata nel tempo e rappresentata. Lo scrittore la ipotizza “nei dintorni della città”, ma questa è la sua condizione universale, posto che il primitivo è da tempo rimosso, l’uomo al naturale.
Asservita, a una serie di scopi, si può dire la natura addomesticata. Come gli animali. Come questi, anche i più domestici, mantiene i suoi scarti, virus, rabbie, terremoti, alluvioni, ma come scarti appunto, come un animale domestico può all’improvviso, per un istante, tornare selvaggio – cioè naturale.
Naturale è selvaggio: imprevedibile, ingovernabile.

Popolo - Nozione recente, romantica, e indefinita, ma duratura – specialmente di Michelet e Wagner attorno a metà Ottocento, e nel primo Novecento dei fascismi. Ma sempre amorfa: il popolo è tutto, e non altro.  

Storia –James Joyce ce l’ha in quattro tempi: “il passato, il presente, l’assente e il futuro” (“Finn’s Hotel”, 66) – “i quattro flutti di Erin”, che, “salsi vedovi tutt’e quattro molti secoli prima avevano divorziato in tronco dalle rispettive maritozze (dalle quali si erano separati ritenendosi in ottimi rapporti)”. La memoria dell’Irlanda: “E tale era la loro memoria che li avevano nominati professori esterni alle quattro principali cattedre si scienza di Erin, le università di Mazzaocura, Mazzalitutti, Mazzavicenda, Mazzancollo, dove marconizzarono per quattro volte lezioni settimanali sui quattro tempi della Storia: il passato, il presente, l’assente, il futuro” .

zeulig@antiit.eu

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