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lunedì 24 febbraio 2025

Trasfigurazione del sordido – se la scrittura fa miracoli

Di vite Lucia Berlin ne ebbe molte, anche più di una nello stesso anno, per i problemi fisici che la assediarono, sotto lo sguardo da rubacuori, complici le lenti a contatto, che ne illustra le copertine, e peggio ancora per l’alcolismo, e l’incostanza sentimentale-sessuale. Questa raccolta di racconti brevi e minimi, inediti o dispersi, con qualche lacerto di romanzo abbandonato, curata dal figlio Jeff, si segnala per le trenta pagine di cruda cronologia che il curatore, a vent’anni dalla morte della madre, ha creduto utile far conoscere. Abusata metodicamente dal padre e dal nonno paterno, una madre inerte, alcolizzata, violentata a 14 anni da un amico del padre in Cile, cresciuta con la scoliosi e col busto, sposa poco più che adolescente per andare via di casa, e presto divorziata, sposa, fidanzata o compagna di molti uomini, a letto anche con un diciottenne vicino di casa, babysitter dei propri figli, fidanzata di un altro diciottenne, “il miglior amico di Mark”, il suo primogenito, madre di quattro figli, i primi due col primo marito da studenti, quattro maschi, che accudisce e anche educa, stuprata anche dagli spacciatori che rifornivano il marito di cui ha conservato il cognome (Buddy Berlin, un ricco concessionario di automobili, con tenuta al mare, in Messico, ma eroinomane), girovaga da Albuquerque a Berkeley e Boulder, e fino a New York, tra un ricovero per disintossicazione e un lavoretto (per lo più in ambito medicale, il più lungo in una clinica per aborti), cambiando abitazione, quando non città, ogni pochi mesi. Con (poche) pause d’insegnamento, di letteratura, lettura e\o scrittura, in licei, in università – fino all’ultimo incarico all’università del Colorado a Boulder, gli unici anni, cinque o sei, tranquilli della sua esistenza, poco prima della morte.
Non è la solita biografia americana, dell’artista “maledetto”. Una vita si direbbe impossibile, tragica, pestifera. Vissuta invece gioiosamente, quasi, nelle scritture. Lucia Berlin è il miracolo della scrittura, in senso proprio, taumaturgico. Non c’è realtà spicciola, anche sordida, comunque minima, inutile, che non vivifichi. Perfino i turni, e le liti veterane-novizie, tra le telefoniste del grande ospedale – nel racconto più lungo, “Il centralino”. Racconti, si direbbe, di poveracci, per lo più donne, e di anziani in bisogno. “Mamma e papà” riesce a rendere teneri gli ultimi mesi o anni dei genitori del primo marito.
La raccolta insomma è come le alter, spassosa. Lucia Berlin in grande spolvero nei suoi diari\appunti di quotidianeità. Le telefoniste d’albergo, oltre quelle d’ospedale. Gli incontri “letterari”. Racconti di vita vissuta. Con consigli anche pratici – “con il cetriolo vengono delle bevande buonissime”.
“Incendio” è il racconto della sorella malata di tumore al seno, a Città del Messico, moglie di un ministro del Pri, che Lucia corre ad accudire. “Una nuova vita” è il racconto centrale, “alla maniera di Cechov”, molto su di sé, sposa e madre incapace. Un pezzo satirico devastante, una sola pagina, sul femminismo, “Il brunch”. La satira sempre di celebrità che non ricordano mai di averla conosciuta e perfino frequentata. Allen Ginsberg, Richard Brautigan. In ricordo di quest’ultimo un racconto boccaccesco di come s’infatuò di una gran dama messicana che Lucia chaperonava per San Francisco su raccomandazione del cognato ministro, del potentissimo Pri, la quale è una escort – per l’uso dei governanti Pri, spiega, di viaggiare sempre accompagnati da una aereo di escort (il Pri è il partito Rivoluzionario Istituzionale che sempre governa il Messico dopo Pancho Vila, da un secolo). “Il mio blocco dello scrittore” è uno schizzo autobiografico, di come arrivò alla scrittura del racconto “Sombra”, sulle corride messicane.
A proposito della lunga e dettagliata – impietosa – nota biografica: “Manuale per donna delle pulizie” in origine s’intitolava “Suicide note”, ed era stato avviato nel 1975, subito dopo la morte del suo giovanissimo amante-fidanzato Terry. Un brano tralasciato qui ripreso, “Suicidio”, è di diciotto anni dopo: dopo mesi turbolenti, tra le proteste dei figli e un arresto e un processo di entrambi per ubriachezza molesta e aggressione a pubblico ufficiale, con conseguente perdita di ogni lavoro e credibilità di Lucia a Berkeley, Terry le ha lasciato una lettera d’addio sulla porta di casa, e si è impiccato.
Con i quaderni di viaggio, tardi. A Parigi soprattutto, a Boulder in Colorado, e i ricordi del Messico, dove andava spesso con i figli dall’ex marito Buddy Berlin, quello di cui aveva conservato il nome, a Yelapa e Cancùn. Già in età: a Parigi spesso “si perde”, anche quando non ha bevuto – al Louvre, di cui molto scrive, non vede la “Gioconda”. Ma vi si sente bisognosa di affetto, grata a “un bell’uomo” che all’Odéon l’ha guardata e sorriso (“grazie, ne avevo bisogno”), e si lusinga di subire  avances lesbiche. Trova su an bancarella “Belli e  dannati” che non ha letto, di F.S .Fitzgerald, che trova “un brutto libro, imbarazzante”.
Per quanto raccogliticcia, da amatori, anche questa raccolta è godibile. Di grande abilità nel racconto dell’indistinto, o del noto, o del superfluo. Ne “La vita di Elsa” un vecchio marinaio spagnolo in casa di riposo, che collabora con “un progetto artistico sovvenzionato dallo Stato” raccontando la sua vita, “ottant’anni, ancora atletico e muscoloso”, rappresenta in poche righe l’emigrazione per disperazione: “L’unica storia d’amore che le raccontò fu una relazione di tre giorni con una puttana saltata giù da un sampàn a Singapore. Mr. Ramirez era da solo a bordo, tutti gli altri erano in licenza. La ragazza era salita in coperta arrampicandosi a una cima, e si rifiutava di andarsene. Voleva che la sposasse, e la portasse negli Stati Uniti, non capiva che non era americano. Non era una nave americana… Avevano cucinato…. ballato….dormito su un materasso in coperta, sotto le stelle. Alla fine, piangendo, la ragazza era ridiscesa  sul sampàn a filo dell’acqua. Lì sopra c’era tutta la sua famiglia, visibilmente delusa”.
Una pagina sulla chirurgia estetica, “La bellezza lascia il tempo che trova”, toglie il respiro. Più spesso è l’indistinto quotidiano la materia del racconto. Il vicino di casa vecchio nei suoi movimenti, le sue abitudini. La coppia giovanissima che non ha tempo per parlarsi. E progetti di romanzo: un rifacimento di “Tess dei d’Uberville”, un’autobiografia intitolata “Suicide”.
A Parigi ricorda l’anniversario della morte della madre – da sempre alcolizzata, come poi lei: “Seduta al Lussemburgo pensando a mia madre e me. Per caso le ho parlato, ubriaca, il giorno in cui si è uccisa e il giorno in cui sono finita in riabilitazione? Cosa ci siamo dette?”. Oppressa dalle immagini di chi, Oscar Wilde, ha “la consapevolezza di avere provocato la morte di persone che gli stavano a cuore”. O, “pietosa” invece, del “letto singolo di Proust, con la piccola lanterna, e al piano di sotto il salottino dove sua madre parlava con i visitatori di sera. Che omissione, un solo bacio della buonanotte, l’avrebbe desiderato, bramato, per il resto della vita”.
Una traduzione sfizioaa di Manuela Faimali. Qualche nota non avrebbe guastato.
Lucia Berlin, Una nuova vita, Bollati Boringhieri, pp. 254 € 17

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