La partita dei dazi è una partita Usa-Cina. Ed è monetaria. Con molto teatro a fare scena, per qualche spicciolo, minuscolo, accessorio, beneficio su altri fronti, Canada, Messico, Ue, Giappone, Corea.
“Trump ha minacciato di punire i Paesi che smettono di usare il dollaro
come riserva monetaria”, scriveva a novembre, subito dopo il voto ma prima della
presidenza Trump, quello che poi è diventato il il suo Presidente del Comitato
dei Consiglieri Economici, Stephen Miran. Vuole solo indebolire il dollaro, troppo forte da troppi anni. Di svalutazione non si può parlare, non è pratica lecita, e quindi si parla di guerra dei dazi, ma il fine è un altro “accordo del Plaza”, come quello del 1985,
che chiuse la turbolenza monetaria e aprì la lunga stagione della globalizzazione.
E si capisce che prende di punta, con la politica dei dazi per indebolire il dollaro,
in primo luogo la Cina. Dazi per costringere i partner a rivalutare. Come Reagan fede quaranta anni fa con il Giappone.
Le riserve in dollari (i “tesoretti” in dollari) detenute da paesi esteri sono calcolate in 8.530 miliardi, un quarto del totale dei Treasury. A fine 2024 alla sola Cina era in
capo un terzo abbondante dei dollari detenuti fuori dagli Stati Uniti: 3 trilioni. Seguivano
il Giappone, con 1,2 trilioni, la “Svizzera” con 800 miliardi, l’India 600,
Taiwan 560, Arabia Saudita 450, Corea del Sud 420, Singapore 350, Ue solo 80 (ma tra i primi dieci Paesi detentori di Treasury figurano Lussemburgo, Cayman e Irlanda).
Si capisce da questo quadro la diversa reazione ai dazi di Trump. Della aloofness
cinese, per esempio, confuciana?, la correttezza distaccata. Specialmente
visibile a fronte dell’agitazione europea – ridicolo al confronto l’allarme che si
fa circolare in Germania sulle riserve in dollari della Bundesbank.
Non sembra invece riuscire il secondo fine assegnato alla manovra di Miran, lo spostamento degli investimenti esteri in Treasury dal breve al lungo termine: nei quattro mesi a fine febbraio le banche centrali straniere hanno aumentato di 131 miliardi gli investimenti in Treasury a breve, riducendo quelli a lunga scadenza di 87 miliardi.
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