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giovedì 20 dicembre 2007

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (11)

Giuseppe Leuzzi

Milano, capricciosa, incostante, frou-frou come si vuole, distrugge più che creare. Crea molto, distrugge moltissimo. Distrugge mentre crea. In tutt’e quattro i suoi settori portanti: l’opinione pubblica riduce a gossip, la gestione a chiacchiera sulla gestione, la moda (formazione del gusto) a immagine, la questione morale a sopruso. È formidabile, distrugge l’Italia. Non con l’ascia, svuotandola.

“Da Malpensa non si può partire prima delle 9 di mattina”, rivela il pdg di Air France, Spinetta. È tutto quello che c’era da sapere su Malpensa, lo scalo delle perdite. Ma l’omertà, che è durata trent’anni, continua impenetrabile.

Il “New York Times” dice l’Italia in crisi, tra le altre cose, per la mancanza di senso unitario. Ma questo è più vero del resto d’Europa: l’unità nazionale è in crisi in Spagna, Gran Bretagna, Belgio, non in Italia. Il patriottismo non s’indebolisce se i forti criticano i deboli, gli inglesi hanno criticato per secoli gli scozzesi, i catalani gli andalusi, i fiamminghi i valloni, è il loro modo di trarre profitto dall’unità. Il patriottismo finisce quando i deboli si sottraggono.

Hashem Thaci, come sessant’anni fa il bandito Giuliano in Sicilia, gli Stati Uniti sostengono a capo di un separatismo inventato nel Kossovo. Il separatismo rientra nella cultura americana della democrazia federale. Ma si fa – si inventa – all’estero tramite le mafie. Ora quella albanese. Durante l’occupazione attraverso quella siciliana e napoletana.
Negli Stati Uniti la grande politica sempre usa le mafie. La mafia irlandese fece comodo ai Kennedy, e dopo nella guerra civile. La mafia di Miami è stata usata contro Castro. La mafia cecena contro la Russia. Le mafie russe contro Putin. Ma prendendole dall’altro: pagandole e insieme imprigionandole, sbaragliandone gli affari. Senza mai un sospetto di connivenza, eccetto che nei romanzi di McEllroy.

Il vice-capo dell’antimafia Contrada condannato per mafia è sempre sembrato troppo. L’uomo nel suo destino ha qualcosa di Sofri, non solo perché si rifiuta di chiedere la grazia, che alla sua età dovrebbe essere automatica, ma soprattutto perché, malgrado il suo potere, era indifeso, a Roma si direbbe un fregnone. Non aveva “controcarte”, nessun potere di ricatto, e si è affidato alla giustizia. Ma un procuratore generale della Cassazione, nella fattispecie il dottore Antonello Muro, che lo dichiara colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio” di “concorso esterno” effettivamente è troppo per essere vero. La giustizia avrà pure le sue regole, ma cos’è il “concorso esterno in associazione mafiosa”, senza altra imputazione? Passava per strada, ha preso un caffè allo stesso bar di un mafioso? Perché se gli passava un'informazione è un mafioso senza concorso. Il "concorso esterno" sarebbe ottima materia di cabaret, ma si tratta di mafia e di carcere.

La storia è che l’unità si fece – il Risorgimento fallì – per l’alleanza della borghesia del Nord col feudalesimo agrario del Sud. Non è vero: il Sud semplicemente si arrese all’idea. Questa e altre verità Bordiga spiegava in “Rassegna Comunista” del 30 settembre nel 1922, “I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia”: “In realtà nel Sud d’Italia non esisteva un feudalesimo capace di opporre resistenza alla rivoluzione borghese. La classe dirigente meridionale, in cui la proprietà media prevaleva, si conciliò facilmente con le forme del regime parlamentare democratico, in cui subito inserì le forme embrionali della sua scialba attività sociale e politica, riducentesi ai contrasti di partiti e gruppi puramente locali. Come oggi non ha una lotta aperta di classe tra borghesia e proletariato, così il Mezzogiorno non ebbe un’aperta lotta tra feudalesimo e borghesia, e non dette al nuovo stato una eredità di coefficienti reazionari ma una materia plastica adattissima ad essere utilizzata dall’apparato di governo parlamentare, che largamente si propizia influenze col volgare favoritismo amministrativo”, poi detto sottogoverno.
Sudismi\sadismi. “Calabria Infelix - Ma non si sono ancora stufati i calabresi di essere calabresi? So esprimere solo in questo modo paradossale, di cui spero che nessuno si adonti, il mio stupore (credo condiviso da molti) per come una regione abitata da tante persone per bene possa, però, sopportare condizioni generali di vita sconosciute ai paesi civili. Un sistema sanitario ridicolmente inefficiente, costruito solo per le ruberie della classe politica e che serve solo a far morire la gente (l' ultimo caso l' altro giorno: otto ore di inutile attesa per trovare un posto ad un ragazzino in fin di vita); dappertutto, ma specie sulle coste, una situazione urbanistica raccapricciante, dove l' assenza delle fogne e dei depuratori è la regola; dappertutto il clientelismo come modello sociale a cui non si sfugge; dappertutto la corruzione pubblica, e in intere zone, per finire, il dominio incontrastato della malavita. Questa è la Calabria: quella vera. Chi ci abita, ripeto, come fa a sopportare questo stato di cose? (“Corriere della Sera” 3 novembre 2007, “Calendario” di Ernesto Galli della Loggia). Quaranta giorni dopo un bimbo calabrese di tre anni è morto a Pistoia, in ospedale, per effetto dell’operazione alle tonsille. Un’emorragia è intervenuta, e non c’era il medico all’ospedale. Ma naturalmente non c’è paragone, lo sdegno, di Galli della Loggia e del “Corriere”, e non solo, rimane intatto.
Il Grande Autore fa l’elogio del suo Grande Prefatore, Critico e Presentatore. Di cui il comune editore ha raccolto come strenna le Acute Presentazioni all’Autore. Tutto questo avviene in Sicilia. Ma ne fa la celebrazione - dell’Autore che celebra il Presentatore a una cerimonia dell’Editore - il milanesissimo “Sole 24 Ore”. Perfidia? Il Sud è colpa del Sud.
A Camilleri molto si deve, per avere raccontato Montalbano, la giustizia semplice, di buoni propositi, buona cucina, nuotate rinvigorenti e belle donne. E la Sicilia capricciosa, misantropa, generosa, solare, vivente insomma. Camilleri è consolante. Ma ha una strana concezione dell’impegno civile, compreso l’esibito comunismo. È sempre piatto fuori del siculo-italiano, e il tribalismo adotta a unica cifra, unico argomento. Ma sempre si compiace, senza pudore, e il comunismo riduce all’astioso augurio di pronta morte al suo editore milanese - in poesia, è vero.

Sciascia è ottimo scrittore, persuasivo. Ma usa in maniera errata la chiave del “diverso”, del “noi e loro”, e più per la sua sensibilità politica e l’abilità retorica. Questo nei tre quarti della sua opera, quella dichiaratamente politica. Tutto è negativo nella visione che egli ha della sicilianità, e questo non è possibile. Fa eccezione per la vecchia mafia, il vecchio fascismo, e magari le vecchie zolfare, e questo è ancora peggio.
L’eccessiva dilatazione del conclamato pessimismo è confermata e conformata dalla chiave positiva che egli sempre usa per le realtà a confronto, Milano o Parigi o la Spagna. Contraddicendo la presunta caratterialità del pessimismo, e tanto più per la sua pascaliana razionalità. È un colonizzato o un assimilato. Ottimo scrittore, ma uno introietta gioiosamente la propria “dipendenza”, la rinuncia cioè al diverso, a una parte cospicua di se stesso.

Contestando Manlio Sgalambro, che aveva dato l’“addio” a Sciascia (“Corriere della sera” dell’11 febbraio 2005), Manuel Vàsquez Montalbàn dà la vera ragione del “difetto” di Sciascia, alla passione civile di aver dato un ruolo monopolistico, riducendola peraltro alla mafia (“la Sicilia come metafora”). “In un mondo in cui tutto cospira per farci accettare una verità unica”, scrive Vàsquez Montalbàn, “un mercato unico e un esercito unico, la copertura ideologica che si sta costruendo al servizio di questa congiura è fatta su misura per la capacità di analisi e di smascheramento di Leonardo Sciascia”. È invece il contrario: è parte di essa. Se non della congiura, del servizio della congiura.
La capacità di rifiuto si esclude nel momento in cui si combatte sul terreno dell’avversario, anche se non si aderisce alla sua ideologia, e per quanto vivacemente la si contrasti. Si dice no al pensiero unico, al mercato, all’economicismo, pensando, vivendo e proponendo una realtà altra. Altrimenti se ne è complici, per quanto critici, poiché si opera, o si pensa, all’interno del suo linguaggio, e quindi del suo sistema di giudizio. La mafia che diventa la Sicilia, e la Sicilia che diventa l’Italia e il mondo, sono parte integrante della cospirazione: hanno la funzione di demoralizzare chi (i più, la quasi totalità) ne è fuori e vive o vorrebbe vivere un’altra vita. Il monopolismo dell’antimafia fa parte della mafia, si reggono a vicenda.

Luigi Malerba insiste, sul “Corriere della sera” del 31 maggio 2005, che Sciascia ha fatto solo un piacere ai mafiosi, che lo leggeranno, dice, con diletto. Malerba sbaglia, i mafiosi non leggono, ma è Sciascia che gli ha dato questa idea – Malerba, parmigiano di Orvieto, può non sapere che la mafia è ignorante e anzi analfabeta. Ma è Sciascia l’Autore della Mafia, il suo creatore: questo vedere mafia dappertutto da una parte, e dall’altra la sua ipostatizzazione-intronizzazione, nei saggi più che nei racconti (dove invece la Sicilia è diversa, come è).

Sciascia ha una componente forte – nei saggi e anche nei romanzi – di teismo, o spiritualismo, esoterico. Non alla maniera dei fratelli Piccolo, che si può ridurre a mania senile o esoterica, di cui sorridere con divertimento, come faceva il loro cugino Giuseppe Tomasi, ma nel senso proprio, massonico. Si vede nella propensione a rivoltare la storia, al misterico, al complottistico, e finisce nella magnificazione della mafia – viene sovrapposta alla Sicilia come un macigno una manica di brutti ceffi - e in alcuni riferimenti simbolici. È un laicismo sterile, col culto ridicolo del “com’eravamo”, che è un passato abominevole.
Sterile è il laicismo nell’isola perché massonico: la chiave è sempre quel riempirsi la bocca della Riforma, che l’Italia non avrebbe fatto. È uno spiritualismo sterile ai fini pedagogici e democratici: inevitabile sconfina nella misantropia, che oggi denomina società civile, il disprezzo del volgo, e si chiude nel vecchio notabilato, che in regime democratico non è più produttivo. Ci sono in letteratura più Sicilie, quella della prima lirica italiana, quella del popolo di Guastella e Buttitta, quella di Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Brancati, Verga e il primo Pirandello, e c’è quest’altra, che per essere “francese” e “rivoluzionaria” è – direbbe Sciascia - ineffettuale.

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