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sabato 16 agosto 2008

Secondi pensieri (16)

zeulig

Avarizia – È del cuore, certo, non della testa. E si applica alle cose del cuore, non agli interessi materiali – la cura degli interessi non è avara, il vizio sta nel preporre le cose a ogni passione.
È l’esclusione della passione: l’amore, l’amicizia, la compassione.

Coscienza – È titolo del Novecento italiano, la coscienza di uno straniero. E flusso dei romanzi europei dello stesso secolo. Ma non è recente, è latina, creata da Cicerone per calco dal greco suneìdesis, che però vuol dire capire insieme, imparare insieme. Nel greco antico la coscienza non c’è, Cicerone la preparava per il cristianesimo, con la questione tuttora insoluta dell’anima. E fu ottima cosa. Inoltre c’è una graduazione della coscienza, insegna Schopenhauer, dal polipo all’uomo - e filosoficamente, è da supporre, bisogna sapere cos’è polipo.

È che la coscienza ha ora il compito di spiegare l’inconscio ma la missione è impossibile, essendo le due realtà forse parenti ma nemiche. Di più se si ha la revulsione della storia, per l’uso di vivere, o sopravvivere, istante per istante, per inclinazione e riflessione. O per essere perfettamente storicizzati: senza residui, intellettuali o romantici. Nudi, e quindi in certo senso inermi, ma come lo sono le statue, inattaccabili. E più per avere l’occhio di lince. Che può essere una condanna: spogliare le persone. Spogliarle materialmente, le donne soprattutto, vedere attraverso il trucco, i vestiti, le sottovesti, anche le donne svestite dopo Mary Quant, che ha semplificato la penetrazione, e anche gli uomini, attraverso le sofisticherie – gli uomini sono in quello che dicono. Tutto ciò che invece fa la nobiltà del signor Kent di Superman.

Tolstòj spregiava la coscienza, e anche Hitler, che ne imputò l’invenzione agli ebrei. Già Hobbes la teneva in sospetto: “Coscienza, secondo il modo in cui abitualmente gli uomini usano la parola, significa un’opinione, non tanto circa la verità della proposizione quanto della loro conoscenza di essa, alla qual cosa la verità della proposizione è conseguente”. Quindi, se io non conosco Del Piero, la verità della proposizione, e ascolto al bar i fautori di Totti, magari mi convinco che il bomber è un brocco. La certezza si combatte con l’incertezza, o con un’altra certezza? E l’incertezza?
A noi non ci spaventa il brutto, ma semmai quest’uso democratico, piccolo borghese, del doppio dativo, che poi è buonissima grammatica spagnola. Del resto la coscienza, coi rimorsi e tutto, ce l’hanno i buoni, ai quali non sarebbe necessaria. Gli altri non hanno coscienza. E dunque la coscienza, che Hegel mette con Dio o spirito del mondo, è invenzione del diavolo, se umilia i buoni.
Non è l’automatismo, la sciocchezza che occupa la scena, non ultimo torto del dottor Freud. Prendere per buono il flusso di coscienza, come se non fosse una tecnica espressiva ma la verità, il modo di emergere della verità. Quando si sa, chiunque ha scritto due righe lo sa, che l’associazione libera va in mille direzioni, comprese quelle in cui non va. Ogni memoria e ogni espressione essendo un sistema di equazioni a più variabili, nessuna delle quali è risolutiva, neppure per caso – per caso nella migliore delle ipotesi, perché più spesso la libertà d’associazione è determinata dalle situazioni, dagli interlocutori, dagli umori, dalle stesse regole del gioco. Le coscienze, per quanto libere, automatiche, fluenti, sono casuali e solo per se stesse significative. Come una barzelletta, un’ottava rima, un coro allo stadio. In quanto sintomo sono parziali, e più volentieri fuorvianti.
Si vede che una buona evacuazione è gratificazione grande, se Freud è santo popolare, incontestato. Ma la coscienza – riflessione, scrittura – è un fiume, che è sempre diverso, il tempo è ciò che si trasforma e si moltiplica, spiega Meister Eckhart, semplice è l’eternità.

Crisi – All’economia è connaturata: nella teoria del ciclo, nel marginalismo, in quello che resta di Marx, in Keynes, tutto Keynes è pensato in rapporto alla crisi. È sempre deficitaria rispetto ai bisogni, che sono come la felicità, inesauribili. Ma anche rispetto all’economia dei consumi. E alla semplice sopravvivenza. Si può dire un modo di essere. E una forma ontologica della conoscenza hegeliana, l’antitesi che sempre impone nuove realtà.
La cultura della crisi, o della fine del mondo, è altro. È la mancanza del conforto della vita dopo la morte. Di uno scetticismo che ha travalicato dall’irreligiosità alla storia. All’abolizione della memoria.
Non è l’anno Mille, allora era paura, ora è un desiderio, sia pure perverso. Non sappiamo se moriremo di siccità o di diluvio, ma vogliamo morire. Come, è vero, dobbiamo. Ma vogliamo anche che tutti muoiano, come invece non dovremmo.
Lo scetticismo si può intendere anche come scongiuro e prevenzione. Ma solo in ipotesi: il catastrofismo è fungibile, se non è questo è quello. Un democraticismo estremo, forse, esteso dalle forme di vita all’apprendimento, anche nelle forme elementari del ricordo. Data – storicamente – dal Novecento (Nietzsche, la lettura di Nietzsche, è del Novecento), che è il secolo dell’apoteosi e il suicidio dell’Europa.

Giornale - L’arte della stampa è economia di attenzione. Si scrive anche come si legge, soprappensiero: i giornali hanno un padrone e nessuno è mai morto per un capitalista. E invece è ricco e potente, in un suo modo.
“È bello scrivere ciò che si pensa, è il privilegio dell’uomo”, spiega il nobile veneziano Pococurante nel “Candido”, anche se “nella nostra Italia non si scrive che ciò che non si pensa”. O nel senso che Necker, lo svizzero che portò la Francia alla Rivoluzione, dava all’opinione pubblica, quale “potere invisibile, che senza ricchezza, senza protezioni, senza eserciti può imporre le leggi alla città, alla corte e fin nel palazzo del Re”. Con limiti, poiché vuole e dà ricchezza e protezioni. Del resto il giornale è aspirazione collettiva, dacché, per dirla con Joyce, “il Rinascimento ha messo il giornalista nella cattedra del monaco”.

Scrivere – È portare al presente il passato, incluso l’inesistente. E al passato il presente, inesistente incluso. La storia, purtroppo, si scrive.

È la fissazione di una relazione, perfino di più relazioni, con tutti, con chiunque. Dice Stevenson che si scrive per i propri amici. Sembra modestia, ma bisogna avere amici. Altrimenti si scrive per se stessi. E ancora: con indulgenza. Cos’è l’eternità dell’uomo, questo quid di aspirazioni che lo distingue dal resto compatto della natura, se non un caso di insiemi? Non si è eterni per sé soli. Questo sono, erano, le pasquinate e le rivoltellate, uno scambio spensierato.

C’è nella scrittura, nella buona scrittura, qualcosa di più del percepito e dell’espresso, o del vissuto. Freud e Heidegger, e Nietzsche, Kant, eccetera, o Stendhal e Schopenhauer, e Platone, Rousseau, eccetera, scrittori dotati, sono molto più dei loro filosofemi, delle loro modeste biografie, la sapienza è solo letteratura – solo letteratura? Straordinario potere ha la scrittura, se consente di passare sopra all’immagine deteriore che gli scrittori ne danno. Pallidi, acidi, gobbi, sempre in posa, le labbra serrate, la palpebra scesa, le spalle curve, i denti gialli, il collo incassato, l’occhio spento. Incattiviti nei ricordi, incollati alle minute indigenze dell’editoria e della pubblicistica, i dispetti, i favori, gli amori sempre falsi, favoleggiando di guadagni inesistenti, di giudizio svagato sugli eventi storici, personali o politici, sempre sbagliato, fuori della realtà – senza reale interesse o curiosità. Rifiuti umani talvolta, cariati, che sanno di chiuso, inarticolati spesso, sempre senza entusiasmo. La scrittura è incantesimo, che cancella queste miserie. Di grandezza incomparabile, poiché la misura un fascino sterminato. Ciò può essere fonte di meraviglia, o paura. Ma è esaltante: dà la misura del potenziale umano, della realtà dell’uomo. A meno che leggere non sia un esercizio masochistico.

Scrivere è riscrivere, opera infinita. Una sedia a un certo punto è finita. Anche a una statua o a una pittura a un certo punto non si può più mettere mano. Il pittore lavora “per via di porre”, dice Leonardo, lo scultore “per via di levare”, ma a un certo punto non più. A una poesia o a un racconto invece sì: c’è chi leva e chi pone, e chi pone levando, chi accumula fatti e chi sensazioni, e ogni volta la forma cambia, e la narrazione stessa. È opera necessariamente incompleta. Nicèforo Gregoras, che rielaborava sull’attualità le sue opere, comprese le lettere, è ingiustamente deriso dai bizantinologi. Arbasino ha già rifatto due volte le mille pagine dei “Fratelli d’Italia”, e le vorrebbe rifare. Giustamente, poiché sa leggere l’epoca. Ma più si scrive e più si scrive. Husserl, morendo a settantasette anni, ha lasciato 44 mila pagine autografe inedite – che un francescano è riuscito a sottrarre al fuoco nazista, nascondendole a Lovanio. Se voleva pubblicare qualcosa lo riscriveva tutto di nuovo, perpetuo debuttante.

zeulig@gmail.com

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