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mercoledì 5 novembre 2008

Letture - 2

letterautore

Baudelaire - Ha straordinaria, costante, carica positiva, benché i suoi temi siano il peccato, il male, la malattia, la morte. Quanto pessimista, al confronto, l’entusiasmo di Rimbaud, e non per la vicenda umana.

Dante – Si può leggere “La Vita Nuova” come un romanzo fantasmatico: la proposta di un’ubbia prima che diventi una psicosi. Con una donna lontana, intangibile.

Vernon Lee, cui “La vita nuova” ha suggerito il racconto lungo “A Phantom Lover”, e un saggio su Dante tra Medio Evo e Rinascimento, è piuttosto del parere che la passione di Dante per Beatrice nasce da un amore appassionato e non casto. Insomma reale. “La Vita Nuova” allora non sarebbe fantasmatico. Anche il personaggio del racconto, una signora che vive tra i fantasmi, ritiene l’amore della “Vita Nuova” possibile: “Molto raro, ma può esistere”. Meritandosi però dall’alter ego della scrittrice questo rimbrotto: “Ho paura che avete letto molta letteratura buddista”. Che apre un nuovo filone di esegesi, bisognerà rifare lo Scartazzini.

Si può dirlo vittima della Bibbia. Dell’esegetica biblica, del testo, la lettera, l’allegoria, la morale, la metafora, l’anagogia, la tropologia. Moltiplicata laicamente dall’università.

Franco Cordelli scrive di “Dante, Benigni e i fiorini” sul “Corriere della sera”oggi 5 novembre: «”Dante è un poeta eterno”. Lui lo ha sempre sentito come un suo amico. “Qualunque cosa si dica su Dante va bene, perché è un contributo che diamo alla poesia, alla bellezza, alla gioia di vivere”. Ma, chiediamoci, “questo Dante Alighieri,chi era?”. In effetti, su Dante si sa davvero poco. D lui non è rimasta una firma, un’orma, il numero di scarpe, la taglia del vestito”. A prescindere dal fatto che erano altri tempi, quando Dante scrisse la Divina Commedia, era “giovane giovane”, era “uno che portava perfino dei bei pantaloni allegri e colorati”. Lui, nulla sa dell’eterno poeta, questo particolare lo sa. Perché e come? Perché nel Medioevo, “che a torto viene descritto come un periodo buio e tremendo”, al contrario “si usavano molto i colori”. Il Medioevo, dice, “era un epoca spettacolare: Firenze era la Wall Street del Duecento”. Per lui, Roberto Benigni, con ogni evidenza, colori, bellezza, eternità, lo spettacolo insomma – tutto qui confluisce, “nel fiorino he era una monta fortissima”.
Cordelli trascrive Benigni sembra con sarcasmo. Perché?

L’“Inferno” è una galleria di orrori, da museo della tortura. Voltaire diceva per questo Dante un pazzo e la sua opera “mostruosa”. Come lo pensava il figlio Pietro. L’“Inferno” è il suo giudizio universale, su cui Dante siede quale Dio vendicativo, temperato solo per la forma dal timorato Virgilio. Lo sfogo di un uomo solo, e senza futuro, che non ha affetti, e forse più nemmeno amici. Tollerato dai mecenati appunto che perché pazzo, cioè poeta.

Nel 1865 l’università di Harvard minacciò di togliere le commesse e i fondi al suo editore se avesse pubblicato la traduzione della "Commedia" che Longfellow andava a terminare, la prima in America, col contributo di James Lowell e Oliver Holmes. Benché Longfellow fosse stato a lungo professore alla stessa università. È il plot di “Il circolo Dante”, un giallo, ma è vero. Il poema non andava pubblicato tradotto per essere Dante medievale, scolastico, cattolico. E il poema una commedia, scritta in volgare anziché dottamente in latino, e a lieto fine.

C’è una lettura volgare della “Commedia” quale luogo di turpidini e anche oscena, di violenza, il genere horror, non disprezzabile – anche se lettura, fatalmente, da romanzo popolare.

Delfino – Antonio, morto il mese scorso, era scrittore pieno di umori della “montagna”, l’Aspromonte, ai cui piedi era nato e viveva. Di lui aveva già detto Corrado Alvaro, l’autore suo conterraneo (entrambi sono di San Luca) e prediletto, nel primo numero de “L’Espresso”, il 2 ottobre 1955: “I calabresi sono, con tutta la loro scontrosità, gente di umore, e scoprono facilmente l’ironia delle cose, specie nelle faccende ufficiali”.

Dumas – È narratore, felice, disincarnato. Attraverso l’ironia, l’accumulo,la sproporzione: prende le distanze dalla realtà che crea, a differenza di un Hugo, uno Stendhal, di Thomas Mann, Proust, Céline, che la loro stessa narrazione emoziona. Dumas vi si rappresenta, per il gusto del teatro – lo stesso che ne fa la tecnica: stacchi, sorprese, accelerazioni, rallentamenti.
Più istruttiva è la sua differenza da Balzac, che ha lo stesso gusto disincanato della narrazione, ma da “sociologo” (giornalista) e non da teatrante.

O si racconta meglio, con più inventiva e sveltezza, avendo i creditori alla porta? Che si può immaginare al contrario: si hanno i creditori alla porta per essere narratori.

Gobetti – Disse liberale, cioè anarchica, la rivoluzione leninista. Ma voleva dire bolscevica.

Manzoni – È – sarà – il primo scrittore del nulla. È uno storico, nei “Promessi sposi” non c’è alcuna traccia del sacro. Vi è indotta, da padre Angelini e la Morcelliana, e per la trentennale o quarantennale sua applicazione a qualche inno sacro, applicazione cioè faticosa, ma non c’è nel romanzo. Nemmeno nelle lunghe scene di morte.

Uno che non ha amato le mogli, e neppure le figlie, e forse odiava la madre – la disprezzava. Come Tolstòj, che però era appassionato, non contava le virgole.

Il romanzo storico è invenzione, è un romanzo. Ma è esso stesso parte della storia. E più quando è inventato.
La filologia di Manzoni è doppiamente dubbia. Il suo Seicento è il suo pessimismo, la fede critica o incerta, il Risorgimento (antispagnolismo), la pietà lombarda. La sua presa durevole è certo l’ideologia. Ma con le pezze d’appoggio della storia: è arduo repertoriarlo nell’invenzione. Questo è il difetto del romanzo ma fa l’ideologia italiana.
I romanzi storici di Walter Scott sono totalmemte d’invenzione, e per questo popolari senza essere insegnati a scuola, godibili. Sono anch’essi opera ideologica, andando incontro alle pulsioni dell’epoca: la formazione dell’eroe imperiale britannico, sotto le vesti del Robin Hood liberatore (imperialismo), l’invenzione della tradizione scozzese (nazionalismo), l’insularità (superiorità). Ma più sono opere di storia in quanto abbelliscono e propagandano un essere-che-non-c’è, la voglia d’illudersi.

Sciascia – Di Sciascia dice Matteo Collura, “Il maestro di Regalpetra”, 174: “Il sentire siciliano ne affilerà lo scetticismo”. Marc Ambroise, che ne collaziona le opere: “La sua è l’eresia dell’eresia”. Insomma il pessimismo. Del pessimismo, “di cui tanto si parla a mio carico”, diceva lo stesso Sciascia. E anche: “Che colpa ha lo specchio, diceva Gogol, se i nostri visi sono storti? Ma anche lui è causa della sua stessa febbre”.
Sciascia non era pessimista: lui riteneva che la mafia si potesse sconfiggere – che la Sicilia potesse e volesse sconfiggere la mafia. Fatalista è il Gattopardo. Sciascia criticava la politica nei fatti: il fascismo, l’occupazione americana, la Dc regionale (ma non Reina, Mattarella figli, Nicolosi) e nazionale, anche il Pci. Fece da deputato un buon lavoro, pragmatico, efficace.
La colpa di Sciascia può essere un’altra: la sua giustizia – “Il Contesto” – è metafisica. La giustizia sono i giudici, la categoria più corrotta dell’Italia corrotta.

La “linea della palma” che sale e occupa l’Italia, e anzi il mondo, è in buona parte opera di Sciascia. La chiave la dà egli stesso a Marcelle Padovani, nel libro dallo stesso titolo, 1979: “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me. Prendiamo ad esempio questa realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo con dolore e «dal di dentro»; il mio «essere siciliano» soffre indicibilmente del gioco dei massacro che perseguo”. Questo è perfetto, è l’attrattiva di Sciascia, ed è detto perfettamente. Ma poi Sciascia continua: “Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro perché in me, come in qualsiasi siciliano, continuano a essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso”. E questo è logicamente assurdo, oltre che ingiusto – il sentire siciliano è sentire mafioso?
Ci si può chiedere in che mondo Sciascia – lo scrittore siciliano – viva. O il suo pessimismo è di maniera, dell’Autore che gioca alla decadenza – gioca, perché di suo è fertile, creativo, operoso. Da “traggediatore” siciliano, che col disprezzo del mondo se ne fa padrone? Ma Sciascia non si diverte. Potrebbe invece essere semplicemente il provinciale, Sciascia sta bene a Parigi, benissimo, che la sua insoddisfatta condizione proietta sul mondo. Ma questo è la questione Sciascia, della lettura dell’opera e dello scrittore, non della mafia.
Condivide però anch’egli una concezione della mafia sbagliata. Per tre motivi. 1) La mafia non ha nulla a che vedere con la giustizia. Né la mafia antica né quella nuova. La mafia è legata all’interesse, quindi alla sopraffazione e alla violenza. In tutt’e tre le sue espressioni, la mafia propriamente detta, la ‘ndrangheta e la camorra. In Italia e all’estero. Non c’è lealtà nella mafia se non c’è la convenienza, né c’è amicizia o riconoscimento del bene fatto. I mafiosi hanno sempre tradito senza angosce per interesse – anche prima della legge che premia i pentiti. La vecchia ‘ndrangheta, fino agli anni 1950, si dava un cerimoniale legato alla giustizia, ma era solo violenta, soprattutto al suo interno. 2) Non c’è omertà, le società locali non sono legate alla mafia. Nemmeno le parentele, se non al livello infimo della società. C’è una denuncia continua, febbrile, perfino paranoica, dei soprusi, un tentativo costante di venirne a capo senza rimetterci l’anima. Non c’è molta attesa nei carabinieri e nei giudici, a parte le denunce d’obbligo, ma non si vede il perché: l’omertà consente a giudici e carabinieri in Calabria, Sicilia e Campania di non far nulla in attesa che il denunciante dimostri anzitutto di non essere mafioso. Chiunque ne ha avuto anche minima esperienza, per un furto d’auto o un “dispetto”, lo sa. 3) La mafia non è un fatto culturale, è un fenomeno criminale. Non c’è in tutta la Sicilia, in tutta la Calabria o in tutto il napoletano. La Sicilia ha una grande cultura urbana che ne rifugge. Metà dell’isola ne è stata esente fino agli anni Cinquanta. Ha un vasto ceto imprenditoriale e forti capitali che ne vanno immuni. Ha zone industriali importanti, dell’informatica, dell’auto, della petrolchimica, nonché dell’agricoltura (agrumi, primizie, vino) e dell’agroindustria, e del turismo che ne sono esenti. In Campania se si esce dal triangolo Napoli-Baia-Caserta non c’è alcuna cultura dell’illegalità perché non c’è l’illegalità: a Benevento, in Irpinia, e nel vastissimo salernitano, da Positano a Paestum, al Cilento e a Sapri – ma già il Vesuvio respira, e la costiera sorrentina. In Calabria la mafia non c’era fino agli anni Cinquanta: c’era una onorata società che sbrigava piccoli traffici, guardianie, contrabbando, biglietti falsi, non entrava negli affari, negli appalti, nelle compravendite, nelle attività produttive. Dopo quarant’anni di occupazione delle terre, contributi comunitari, appalti, tangenti, sequestri di persona, delitti innumerevoli contro la proprietà, tutti impuniti, la ‘ndrangheta controlla in Calabria fino ai pranzi per le prime comunioni. Ma non è nata con la Calabria e i calabresi, è nata con l’impunità. Lo stesso in Puglia: la trasformazione dei contrabbandieri locali in “sacra corona unita” o organizzazioni mafiose è degli anni 1970.
Chi conosce la mafia di prima persona queste cose le sa. Un quarto falso pilastro, che sta crollando perché interrotto negli anni 1990 a metà della fabbricazione, ne conferma comunque la natura non ineluttabile: la terribilità della mafia (la mafia più potente dello Stato, la mafia più radicata della coscienza civile, l’imprendibilità dei latitanti, il riciclaggio inafferrabile). Tra gli assassini di dalla Chiesa e di Falcone e Borsellino, un periodo lungo dieci anni, questo pilastro è stato costruito alacremente, ma ora ognuno sa che i latitanti, se ricercati, si prendono. Le cupole si dissolvono, le famiglie si frantumano, la delazione è generalizzata. Non si elimina il delitto, ma questo non c’entra con le tre, o quattro, presunte proprietà della mafia, il delitto sempre si ripropone. Anche in forme mafiose.
La sociologia fatica a recepire la realtà perché lavora su una concrezione di false verità difficile da scardinare. La falsa mafia è in parte dovuta a elaborazione autonoma di “traggediatori” siciliani, con aggiunte napoletane, di finta sentimentalità. In parte maggiore è cultura da colonizzati: la mafia è stata - ed è – soprammessa dall’Italia unita. In qualche caso da siciliani espatriati, che hanno mediato e fatto proprie troppe e non disinteressate semplificazioni. Questa falsa mafia è inattaccabile perché è compattata a tutti i livelli, dalla banca, la chiesa, la giustizia, agli articoli di giornale: tutto è mafia, anche l’abuso edilizio, o il falso invalido. Non c’è paragone tra gli abusi delle riviere liguri, o adriatiche, e quelli della Sicilia, ma un articolo sullo scempio edilizio in Italia partirà sempre da Agrigento e dalla Valle dei Templi – che è invece il parco archeologico meglio tenuto dell’Europa, e probabilmente del mondo, oltre che esageratamente affascinante. Sciascia, purtroppo, ci credeva: non di avere in quanto siciliano delle colpe, ma di essere il più colpevole di tutti.

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