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giovedì 24 giugno 2010

L'Italia modello - ma non in Italia

Geniale, tanto più per essere fuori corso (si riedita uno studio pubblicato nel 1989, una sorta di testamento di Braudel, che tanto ha studiato il Mediterraneo, morto nel 1985). Braudel parte con l’ironica sottolineatura degli italiani anche bravi soldati, per conto del re di Spagna: milanesi, napoletani, siciliani. E delle “emigrazioni perlate, di lusso a dire la verità”, sempre molto qualificate, di religiosi, politici, artisti, che a loro modo colonizzarono il resto dell’Europa. Con l’uso diffuso dell’italiano nelle corti e tra i letterati. E l’invenzione, da ultimo della “ragion di Stato” – monsignor Della Casa ne scrive a Carlo V nel 1547. Fino a tutto il Cinquecento “ci fu, anche nei riguardi di Bisanzio e dell’islam, e più nettamente ancora nei riguardi dell’Occidente, una supremazia di lunga durata a beneficio delle città e dei mercanti dell’Italia”. Il “modello italiano” è in realtà un'Italia modello, per la seconda volta nel secondo millennio, per due secoli circa, fino a metà Seicento (in un succoso inciso a metà libro, “L’Italie au plus haut de son rayonnement”, Braudel affronta anche la questione “Modello”). E ancora dopo: l’Europa si spopolerà a metà Seicento, ma l’Italia resta il paese più densamente popolato.
Nei due secoli Braudel censisce tre Italie. Quella in pace per quarant’anni dopo l’accordo di Lodi (1454). Quella saccheggiata a ripetizione per sessant’anni dai francesi, gli spagnoli, gli svizzeri, i tedeschi (“l’Europa ha reinsegnato all’Italia la guerra selvaggia: il sacco di Brescia da parte dei francesi (1511), il sacco di Roma delle truppe miste del connestabile di Borbone (1527), il sacco di Pavia operato dai francesi nel 1526, che si vendicano della sconfitta del 1525, il sacco di Genova (1532) da parte degli spagnoli (saranno risparmiate solo le lettere di cambio prese ai mercanti) - questi orrori proclamano, da soli, l’inumanità dei tempi nuovi” (60), ma non in Italia. Infine un secolo di lunga pace, dopo il 1559. Che equivale, dice Braudel, a una “messa in prigione”. Ma in tutt’e tre le epoche l’Italia è più attiva di ogni altro in Europa, nella finanza, i commerci, le arti, e la poesia. Anche perché il controllo straniero dopo la pace del 1559 è superficiale, Chabod l’ha dimostrato negli “Usi e abusi nell’amministrazione dello Stato di Milano”.
Con la scrittura evocativa di Michelet e Burckhardt, seppure sprovvista di aneddoti, Braudel lega l'assunto con geometria. Le “città lepri”, Genova, Firenze, Venezia, Milano, oppone agli “stati tartaruga”. Quattromila veneziani, cifra allora ragguardevole, sono censiti nel Vicino Oriente attorno al 1500. è una “emigrazione” di mercanti e banchieri. Dal 1450 al 1650 Genova e Venezia hanno il quasi monopolio dei trasporti marittimi con l’Oriente, e fino al mare del Nord, i fiorentini e i genovesi entrano in tutte le partite finanziarie. In sintonia sempre sempre con l’impero turco, per l’interesse reciproco, che pure avversano militarmente – “un Mediterraneo prospero è un’Italia prospera” (90). Anche nella secolare guerra della Spagna per le Fiandre, la strada migliore è quella dell’Italia, via Genova, Milano e i passi alpini. Restando da accertare la parte di Livorno, per la quale Braudel chiede che si scriva la “storia vera”, i legami cioè con Amsterdam, il ruolo di ebrei e marrani, i legami del granduca. Una considerazione è valida ancora oggi, con la “Cina”: le città italiane che dominano gli affari europei non hanno, o periodicamente le perdono, le arti manifatturiere, della seta, della lana, eccetera, ma sempre mantengono la leadership del credito, il trasporto, la vendita delle “arti” degli altri.
Un tema fecondo introduce riguardo a Napoli e al Sud Italia, che restano fuori già da questo “miracolo”: “La feudalizzazione, o rifeudalizzazione, interviene quando uno Stato si disgrega”, il feudalesimo è comunque un ordine. È il caso di Napoli nel Cinquecento, argomenta Braudel, rifacendosi “ai lavori di Giuseppe Coniglio, Rosario Villari, Ruggiero Romano, Pasquale Villani, Antonio Di Vittorio”. È dubbio che il Sud abbia mai avuto uno Stato. A parte, s’intende, le signorie, normanna, tedesca, angioina, aragonese. Braudel sembra contraddirsi, poiché subito dopo argomenta: “Ora, lo Stato svenduto all’asta non è precisamente il caso del regno di Napoli?” La Spagna si difese in Europa nelle Fiandre, ha spiegato a lungo. Per le quali finirà per vendersi tutto di Napoli, dice ora, “il reddito e anche il capitale”. Di cui fa l’elenco in dettaglio: “le poste stesse dell’imposta, la proprietà delle giurisdizioni, i diritti regali, più o meno sbrecciati, le dogane del porto, l’imposta sulla seta, i titoli nobiliari, e infine i contadini, cioè i comuni del demanio reale”. A spese dei lavoratori: “Il conto lo paga il contadino della pianura e della montagna”, conclude Braudel, “produttore di grano, lana, carne, vino, olio, seta”. Vera pure l’ultimissima considerazione dello storico: Napoli si rivolta a metà Seicento, quando tutta l’Europa si rivolta, la crisi è generale, Parigi, Londra, la Catalogna, “ma solo il Portogallo vincerà la partita”.
Storico della “lunga durata”, e vero cosmopolita, Braudel coglie bene le tendenze, i movimenti di lungo periodo: “Gloria del denaro, gloria dello spirito, che ci seduce, questa, più di quella. Nell’esemplarità della sua vita, l’Italia dà, per secoli, lo spettacolo delle sue riuscite intellettuali, delle sue acrobazie, delle sue novità, delle sue rivoluzioni culturali senza fine contraddittorie: libertà poi ordine, progresso poi rottura, luce poi crepuscolo”. Uno dei pochi studiosi residui di Genova – “ci fu grosso modo, dal 1550 al 1650,altrettanto brilante che il «secolo dei Fugger», un «secolo dei banchieri genovesi»”. Il solo studioso contemporaneo delle relazioni tra l’Italia e la Spagna, l’ironia di Manzoni sembrando sopraffare gli stessi storici.
Uno storico la cui onestà non si può contestare, che esordisce: “Sono di quelli che sono colpiti del vigore Attuale dell’Italia, dalla sua spinta vitale crescente, anche nella sua letteratura e nell’arte, e nel suo meraviglioso cinema”. Nel 1985, prima del diluvio – prima che Milano, la capitale morale, sommergesse l’Italia.
Questo studio, benché di ottima fattura e di argomentazione chiara, è ancora inedito in Italia. Certo non per disattenzione. Né - non si vede come - per la damnatio memoriae, questa Italia lombarda non ha memoria. Per un complotto?
Fernand Braudel, Le Modèle italien, Flammarion, pp. 221, € 7

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