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giovedì 23 febbraio 2012

Leopardi ride, come Mozart

Il primo numero di una collezione “Emozioni a Roma” è ferocemente antiromano. Sia nel primo che nel secondo soggiorno a Roma, nell’inverno del 1822 e in quello del 1831, sei mesi e mezzo e cinque mesi e mezzo, la seconda volta per accompagnarvi Ranieri, due “bamboccioni” sempre a corto di uno scudo dal babbo, Leopardi è deluso da tutto. Ma non è questa la novità, le lettere sono note, e i suoi disagi a Roma. Che non è una “città”, come il provinciale Giacomo sa che ne esistono, lui è un vero cosmopolita, oltre che oltremodo colto: Roma è un paesone di 300 mila abitanti, superficiale a suo dire, ignorante, cafone. Donne comprese, preti e intellettuali, che si occupano tutti solo di antichità, pur non sapendo di greco né di latino. Le donne anzi senza eccezione: “Io non conosco le puttane d’alto affare”, scrive al fratello Carlo col plurale maiestatis, “ma quanto alle basse, vi giuro che la più brutta e gretta civettina di Recanati vale per tutte le migliori di Roma” - e non trova di meglio: “Ti saluta donna Marianna”, scrive della zia che lo ospita, “che si fa sempre più schifosa”. E più di tutto è sopraffatto dalla noia, la vecchia acedia, contro la quale si aspettava il rimedio dall’uscita di casa: “La conversazione o spiritosa o senza spirito m’è venuta in odio mortale”. Stufo pure della filologia, l’occupazione prediletta: “Sempre più ne conosco la frivolezza”.
Una prima novità è che questa di Leopardi è un’altra Roma rispetto a quella contemporanea di Stendhal, che peraltro frequentava gli stessi ambienti del poeta. Un raffronto che meriterebbe attenzione. Stendhal, ben “milanese” anche se per tutto italianizzante, trovava a Roma più di un interesse. Questione di carattere. La noia ha effetto inverso sui due. Una delle prime riflessioni che Leopardi scrive a casa, da questa sua ambita uscita, è: “Per me non v’è maggior solitudine che la gran compagnia”. Questione di approccio. Roma era stata appena rinnovata da Napoleone, che non c’era mai andato, in cinque anni, dal 1809 al 1814. Era stato scoperto il Pincio, create la piazza del Popolo e la Passeggiata Archeologica, scavato e recuperato il Foro Romano, dopo un’incuria di quindici secoli. Ma Leopardi non sa di Napoleone. E col papa e i cardinali ha approccio anticlericale, in questo lui stesso molto romano, come di lascivi fornicatori – “il santo Pio VII deve il cardinalato e il papato a una civetta di Roma” e non parla che di donne. Stendhal e Leopardi a Roma sono due mondi diversi: uno nuovo nuovo, al passo coi tempi in tutti gli aspetti, anche sociali, politici, e uno nuovo vecchio, l’intellettuale italiano di sempre a partire da Petrarca, che anche quando è grandissimo poeta e filosofo di sé solo cura.
Una seconda novità di questa estrapolazione è la curiosa sintonia del giovane Leopardi con un altro genio adolescente attardato, Mozart - benché Giacomo sia figlio di un conte. La stessa franchezza, diretta quanto la genialità: di “cacare”, “farsi f.”, “coglionare” e non capire, non contare, non fare “un cazzo” scrive alla sorella Paolina oltre che al fratello Carlo, col quale, come si sa, soprattutto “parlano di donne”. Una terza è il rapporto col padre. Giacomo arriva a Roma a 24 anni, per la prima volta lontano da Recanati e dalla famiglia, col beneplacito della stessa dopo il famoso tentativo di “fuga” abortito, ospite dello zio Antici, fratello della madre, nel palazzo Antici-Mattei oggi parte del monumentale complesso Caetani. Della famiglia che lo ospita Giacomo non fa che parlare male, dello zio, della zia, e delle figlie. Senza rispetto per la propria madre, Adelaide Antici, che ne è dopotutto sorella, cognata e zia - nella “leopardiana” Adelaide Antici Leopardi si vuole quella che “salva” la famiglia, a dispetto del bizzoso Monaldo. Carlo Antici è lo zio-padre, presuntuoso, uomo d’esperienza, che angaria e offende Giacomo con prolisse reprimende-esortazioni.
Col padre Monaldo, invece, Giacomo corrisponde di letteratura, può farlo, si capiscono, mentre a Roma non ci riesce, eccetto che con i letterati stranieri che trova dagli ambasciatori di Prussia, prima Niebuhr poi Bunsen, e dal Reinhold, ambasciatore d’Olanda, amico e estimatore del padre, nonché di filologia, e della biblioteca di casa, che entrambi accudiscono al dettaglio. Con lunghe, ripetute, perfino tenere espressioni di affetto, malgrado le “opinioni e inclinazioni molto diverse in politica” - il disagio dovrà essere riportato al rapporto con la rigidissima madre?
Che altro? Un dato biografico. Nella delusione per la città eterna cafona e noiosa il letterato ventenne si manifesta molto moderno, senza complessi, molto attivo e curioso, molto mondano nel senso buono, in grado di conversare ventenne con brio e intelligenza con studiosi di rinomanza, ambasciatori, bellezze. Pessimista si direbbe per scelta filosofica, oltre che per il rapido declino fisico.
Giacomo Leopardi, Lettere da Roma, Lozzi Publishing, pp. 190 € 9,90

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