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lunedì 2 settembre 2013

La scoperta della Calabria

Il sottotitolo è “Avventure fra le montagne della «Vecchia Calabria»”. Che questa incredibile (per scelta, presentazione, stampa, prezzo) collana di viaggi illustra con foto dello stesso Bevilacqua. Passeggiatore compulsivo, promotore del Wwf e del Cai in Calabria, da trent’anni iconografo riconosciuto, praticamente unico, con Alfonso Picone Chiodo, per le sue numerose pubblicazioni, della Montagna. Della Calabria cioè, che è tutta montagna.
La storia della Calabria è costiera, la natura è montanara: vertiginosa, sorprendente, e chiusa, perfino cupa. Bevilacqua ha saputo infine fotografarla, dare alle sue forme un linguaggio comprensibile ai più, nelle asperità, le connivenze, le sorprese, le luci, i colori. Qui intervalla i racconti di escursioni, utili anche come guida pratica, con la migliore letteratura di viaggio. Norman Douglas naturalmente in dose più abbondante, il nume ispiratore. Da cui il metodo sembra tratto, poiché si salta da Antonio Barca, “uno dei maggiori appassionati dell’Aspromonte”, che sui Piani di Carmelia ha creato e gestisce “il grazioso rifugio «Il Biancospino» e a Norman sarebbe piaciuto moltissimo”, a Alexander von Humboldt, “uno dei più grandi esploratori di tutti i 
tempi” – Douglas scriveva per associazioni. “Norman” Bevilacqua richiama anche per la profondità, psicologica (personale), culturale, di simpatia con gli uomini e le cose, che sempre erompe e fa questo libro bello: amabile a leggere, e di impatto durevole. Un caso anche raro, in Italia, di scrittura di viaggio.
Con qualche reticenza. Ricorre ovunque il disboscamento dissennato della Sila e dell’Aspromonte, senza mai dirne la curiosità principale: che fu opera della famiglia Feltrinelli. Che fu all’origine delle fortune della famiglia negli anni 1920-1930. E anche, se vogliamo, dell’Aspromonte, di una piccola parte di esso, Gambarie, la sola ancora attrezzata per l’ospitalità, con alberghi e locali pubblici. Il primo chiosco sorse a Gambarie, alla vigilia della guerra, a opera del signor Carlo, un lavorante lombardo o veneto dei Feltrinelli: un capanno in legno, a ristoro dei cacciatori, allora numerosi, aperto la gran parte dell’anno.
Bevilacqua non colma un vuoto, questa Calabria-Montagna è ancora vuota, ma segna un inizio molto buono. Lui stesso dice che la Calabria non si può conoscere perché è impossibile: “Se consideriamo che in Calabria, a occhio e croce, ci sono circa 700.000\800.000 ettari di montagne che possono essere percorse a piedi per gran parte prive di sentieri segnati, dal Pollino all’Aspromonte, più tutte le zone collinari contermini, che spesso presentano anch’essi ambienti di eccezionale bellezza, ecco, allora, che non basta la vita di un uomo per conoscere davvero tutta la natura calabrese”. Non è vero, e lui ne è la dimostrazione – ma non è in vasta compagnia.
Perché è la Calabria?
La stessa collezione che ospita il suo libro mette in risalto che la conoscenza della Calabria “interna”, naturalistica, orografica, antropologica, è ferma al primo Ottocento e a viaggiatori quasi tutti stranieri, nonché alla “Vecchia Calabria” di Douglas un secolo fa. Bevilacqua segna infine una ripresa. Sembra poco ma è moltissimo. Egli stesso sa di essere – essere ritenuto – un eccentrico, se non un maniaco. Quando si può fare tutto comodamente in fuoristrada.
Giustamente allora Bevilacqua parla di sé, sotto la falsa modestia dell’omaggio a Douglas. Per il ruolo per molti aspetti di pioniere nella presentazione della Montagna, dell’immagine che ne fa – ne farà – la sostanza. Anche nel problema esistenziale che bizzarramente – il quesito è un po’ revulsivo – pone all’inizio: perché restare in Calabria. Non un suo problema, s’intuisce per fortuna, ma dei suoi amici che di continuo glielo pongono. A cui, forse per non dispiacere loro, Bevilacqua non oppone la semplice verità: perché la Calabria non è un problema, non può esserlo nemmeno per spirito polemico, quello è un problema di chi se ne va – può esserlo, non lo è di tutti. Che deve “giustificare” la sua scelta di un’altra identità, sempre ardua e ultimamente contestata, dal leghismo e non solo.
Scegliere un altrove è sentito come cruccio da tanti intellettuali meridionali, una mistura di colpa, rimpianto, e avversione. Mentre altrove non lo è. Il fenomeno è infatti esteso, non si va via solo per disperazione. Molti milanesi hanno scelto Firenze o Roma, da ultimo Gadda e Arbasino (ma lo stesso Manzoni: quando non era in Toscana, dopo Parigi, se ne stava a Brusuglio), dove sono evidentemente a loro agio, senza problemi per loro né per Milano. A Napoli invece, in Sicilia, in Sardegna, e di più in Calabria, andare via si vuole un problema e una colpa. In Calabria di più perché non ha le positività, di storia, cultura, aggressività, di Napoli e della Sicilia, o di recupero della tradizione in Sardegna, anzi è tutta in perdita, ogni respiro vi va conquistato. Ma questa è palesemente una condizione interiore, di disadattamento, più che un una condizione reale, regionale. Bevilacqua lo risolve col “viaggiare restando”. È una soluzione, ma presuppone un’innecessaria colpa Calabria.
Perché non è la Val Gardena?
C’è insomma anche qui, irrimediabile l’odio-di-sé – ingiustificato anche quando è giustificato. Perché Bivongi e la valle dello Stilaro non sono Selva e la Val Gardena?  E come potrebbero esserlo? O il turismo cafone. Che in Calabria non c’è: il turismo non c’è (ha fatto mai Bevilacqua il Gran Paradiso, in fila sui sentieri, in coda?), mentre c’è la sporcizia e la strafottenza. Lasciano perplessi anche alcune pagine “douglasiane”. L’invidia, o il malocchio, come psicologie calabresi. In Douglas erano una spiritosaggine, riprenderle non più. Specie se si assommano alle mafie, alle ecomafie, alla cattiva politica e alla speculazione – alla speculazione? Per non dire forse la maleducazione, invasiva con l’irresistibile incontrollabile democrazia-demagogia-demografia - demo è parola rispettabile, ma non quando non la si fa rispettare. Questo è. E la violenza, le rabbie irrefrenabili. Nemmeno di sopraffazione, solo violenza: si spara per collera. Contro un popolo che più inerme e mite non si può immaginare, quasi incapace – si può dire popolo, non si può dire società, e anche questo è un problema, se non il problema. Perché in certe famiglie non si coltiva che la violenza - raramente contrastata - e spesso a buon diritto, sotto le specie della rivalsa sociale.
Un caso fra i tanti. Si prenda ciò che il politicamente corretto chiama “disastro ambientale”, la sporcizia cioè, le discariche più o meno velenose, e l’abusivismo illimitato, oppressivo. Di cui la responsabilità è, sempre per la correttezza, imputata alle “ecomafie” e alla “corruzione politica”. Mentre è l’esito della democratizzazione. Giusta e necessaria ovviamente, ma illimitata e aggressiva. Il favoritismo, o “corruzione” politica, ne è un aspetto – da cui il deprecato notabilato andava esente (Salvemini avesse saputo…). L’esasperato anarchismo proprietario un altro. Se mi costruiscono davanti, di dietro e sopra la casa, non posso dire nulla, hanno il “diritto” di farsi o migliorarsi la casa. Costruzioni naturalmente mai finite, perché i soldi scivolano e i mutui vanno pagati – il “diritto” è, non innocentemente, della banca. L’ascesa da Delianuova al Montalto, di cui Bevilacqua riesuma qui il racconto di Douglas, fatta personalmente numerose volte, come tanti altri del resto, non è vero che il calabrese non ama la montagna, non meno dell’abruzzese o del piemontese, e più volte a stagione per molti anni, da quando il moto alluvionale democratico non ha avuto più limiti, diciamo da 35-40 anni, è impossibile: tutto è stato recintato, e non per preservare alcunché, perché tutto al contempo è stato abbandonato, gli orti, i meleti, i castagneti, la cava di pietra verde e la stessa industria del legno (c’erano mobilieri in paese che non ci sono più, si e comprato a lungo in Brianza, ora c’è l’Ikea), il lavoro di almeno un secolo, forse due, buttato lì, alle felci e l’inselvaggiamento, sotto l’albagia neo padronale. La piazza di questo stesso paese montuoso, il più elevato dell’Aspromonte, aveva un affaccio sulla ex valle delle Saline fino al mare, che ora non ha più: un parallelepipedo di quattro piani alti per trenta metri di fronte lo ingombra. Non terminato e non abitato.
Ma il libro non si segnala per le assenze quanto per le presenze. Con molte pagine infine, queste sì douglasiane, di amore-di-sé meridionale. Di curiosità e comprensione, che aprono orizzonti al lettore. A partire dalla semplice ‘mpanata, uno dei tanti modi d’insaporire il pane, che era il solo alimento – companatico, parola disusata, era lo stuzzichino per far ingollare più pane, roba sapida, salami, pecorino, sottolii, e anche le concrezioni di latte di pecora ancora calde nel loro siero, una volta che le ricotte sono state estratte e messe in forma per il mercato o la conservazione. La capanna da pastori a cono nella valle del Trionto sopra Longobucco, rivestita di fronde di ginestra: una copertura che lascia passare il fumo e il vapore acqueo del fuoco all’interno, ma è impermeabile alle piogge – “una funzione analoga a quella del Gore-tex!”. Le “Pietre”, voluminosi ammassi calcarei che segnano i crinali e gli altopiani, soprattutto nell’Aspromonte, Pietra Cappa, Castello, Salva, di Febo, Mazzulisà, qui col contorno di “un centinaio di giganteschi pini larici alti sino a 40 metri e con diametri di 2 metri alla base e decine di querce, una delle quali raggiunge gli 11 metri di diametro alla base”, Rocche di San Pietro, dell’Agonia, degli Smaleditti, etc., con modeste "meteore" eremitiche. O il culto della Madonna, così diffuso ma inesistente fino a un millennio fa, introdotto nell’ambito della latinizzazione, in tutte le forme immaginabili, facendo aggio sulle antiche forme di religiosità femminili, in sostituzione dei santi “meridionali” (greci, bizantini).
Fare l’elenco delle sorprese è inutile: sono il libro, il piacere della lettura. L’impegno di Bevilacqua,  riuscito, non è da poco: mostrare che “la bellezza regna sovrana nei canyon e sulle «timpe» dolomitiche del Pollino, nelle forre e tra i dirupi andini dell’Aspromonte, nelle abetine svizzere e nei fiumi cristallini delle Serre, nelle pinete scandinave e nelle valli arcadiche della Sila, nei boschi selvaggi dell’Orsomarso e nelle faggete nebbiose della Catena Costiera occhieggianti verso il Tirreno”.   
Francesco Bevilacqua, Sulle tracce di Norman Douglas, Rubbettino, pp. 292 € 7,90 

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