Cerca nel blog

lunedì 7 aprile 2014

Letture - 167

letterautore

Autore – All’autofction e ai selfie Piperno aggiunge, sulla “Lettura” domenica, l’ego-surfing, o il come parlano di me. Tutti siamo egotisti e egoisti ma l’autore di più. L’autore è come il santo, uno che si vuole (si coltiva, si promuove): non esiste scrittura che viva di per sé.

Italo Calvino – Si può dire retrospettivamente il letterato per eccellenza, pur avendo scritto tanto  di politica, e lavorato molto, fino al 1956, per il partito Comunista. Ha poi obliterato la politica come aveva rimosso la natura e la botanica con l’agronomia, scienze familiari che aveva coltivato in proprio fino all’università (due anni in due prestigiose università di Agraria, a Torino e Firenze, dal 1941 al 1943). Dopo il 1956 si sganciò dal Pci con lentezza ma radicalmente. Il rifiuto fu come una crisi di rigetto, subito nello stesso anno con “La gran bonaccia delle Antille”.
Il giudizio politico – quello espresso – mantiene discreto. E limitato: si allontana con una critica ma senza autocritica. Come se la realtà prima fosse diversa, e il 1956 l’avesse cambiata. Nelle postume “Lettere americane” ricorderà che, “essendo pieno di buona volontà”, s’era fatto un “dovere” di calarsi “nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali”. Per scoprire poi non l’errore di una scelta ma “la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo”.
Non aveva cercato, inoltre, un’altra politica, se n’era semplicemente chiamato fuori. Senza che si possa sospettarlo di opportunismo– ma prudente è, il visconte è dimezzato.Era l’impegno politico un atto della volontà, non un suo bisogno: una fatica.

Alla lettura di Asor Rosa, “Scrittori e popolo”, 1965, scriverà nel 1983 (ora in “Mondo scritto e mondo non scritto”, p. 86): “Complessivamente, devo dire, vedere la corazzata Potiomkin della letteratura italiana di sinistra colare a picco per autoaffondamento a bandiere spiegate, con ufficiali ed equipaggi schierati sopracoperta sull’attenti, fu un bello spettacolo. Me lo godetti senza rimpianto nuotando con tute le mie forze per allontanarmi dal gorgo”. 

Classicità – È umiltà? Meglio che in tanti trattati è in una lettera di Kafka a Max Brod, autore di un pretenzioso robusto “Paganesimo Cristianesimo Ebraismo”, di cui aveva sottoposto all’amico il dattiloscritto: “Non credo a un «paganesimo» come lo intendi tu. I Greci, per esempio, conoscevano benissimo un certo dualismo, altrimenti che senso avrebbero avuto la Moira e tante altre cose? Solo che erano esseri particolarmente umili - per quanto riguarda la religione. Una specie di setta luterana. Ciò che è decisamente divino non potevano pensarlo mai abbastanza lontano da loro,tutto il mondo degli dei era solo un mezzo per tenere distante dal corpo terreno tutto ciò che è decisivo, per dare aria al respiro umano”. L’Olimpo come una camera iperbarica, per la decompressione, per un bisogno costante di derealizzarsi.
L’Olimpo “era un grande mezzo di educazione nazionale, che incatenava gli sguardi degli uomini, ed era meno profondo della legge ebraica, ma forse più democratico (qui non c’erano guide e fondatori di religione), forse più libero (li incatenava, ma non so con che cosa), forse più umile (perché la visione del mondo degli dei faceva affiorare questo alla coscienza: allora non siamo neppure dei, e se fossimo dei cosa saremmo?)”. C’è una felicità possibile in terra, conclude Kafka, ed è “credere decisamente al divino e non aspirare a raggiungerlo”. È qui l’umiltà dei Greci: “Questa possibilità di felicità è tanto blasfema quanto irraggiungibile, ma ad essa  Greci sono stati forse più vicini di molti altri”.

Dante – Non c’è a teatro. Se non in forma di dizione – famose e molto popolari quelle di Sermonti, in parafrasi, e di Benigni (ma meglio ancora, in forma più propriamente teatrale, con maschere efficaci dei personaggi, quella messa in scena per anni da Rocco Militano nei teatrini off di Trastevere in “Infernal Comedia”, con Maria Teresa De Clementi). Peter Weiss ha scritto in “Inferni” di avere progettato a lungo una “Divina Commedia”. Un dramma in tre parti ovviamente, ma con un Dante contemporaneizzato – il teatro dopo Auschwitz: il poeta vi doveva mostrare i supplizi dei perseguitati per la loro razza. Ma non trovò la chiave. Polverizzando i corpi, a Wiess si polverizzava anche la parola, non ne trovava di adatte a descrivere e mostrare: “Non era più possibile dir niente, e tutte le parole, di qualsiasi lingua, non avevano più senso”. Ma il “dopo Auschwitz” l’’aveva concepito per dare un’immagine alla parola, che trovava – e forse è - soverchiante, incalzante.

È martellante. Nel “Ricordo autobiografico” Scalfari rimemora “lo stile martellante di Dante”. Il ritmo, che la traduzione francese di Jacqueline Risset esalta. Martellante è l’aggettivo giusto.

Dickinson – La sua è la poesia attualmente più tradotta. Almeno una ventina di traduzioni sono disponibili in libreria. Quella completa, dei Meridiani, sostituisce dal 1995 la vecchia e pregiata edizione dello Specchio, 1956, a cura e con traduzioni di Guido Errante. Il Meridiano, a cura di m
Marisa Bulgheroni, alla quale si devono un paio di altre edizioni meno impegnative per gli Oscar, comprende 1.775 componimenti, tradotti da Silvio Raffo (1.174), Margherita Guidacci (392), Nadia Canfora (27). Massimo Bacigalupo (127) ha revisionato tutte le traduzioni. Con l’aggiunta di traduzioni d’autore di Cristina Campo, Annalisa Cima e Montale, Montale, Giudici, Luzi e Amalia Rosselli.
Feltrinelli e Bur propongono le traduzioni di Barbara Lanati. Garzanti di S. Giorgi. Bompiani di Massimo Bacigalupo. Passigli di Adriana Sassi. Newton Compton di Gabriella Sobrino. Einaudi di Silvia Bre. Giunti di Alessandro Quattrone. Marsilio di Bianca Tarozzi. Se di Nadia Campana, Editori Intenazionali Riniti di Francesco Fava. Numerose edizioni tematiche si aggiungono di Acquaviva (quattro), ancora Giunti (tre), Crocetti, Mursia, Ancora, Via del Vento, Finisterre.Varie edizioni .
Ma la lettura è monocorde: l’idea prevalente è che prosodia, temi e lingua discendono dalla Bibbia e dagli inni sacri. Anche se la biografia è complessa.

Esilio – È il luogo del romanzo europeo, secondo la “Teoria del romanzo” di Lukáks. L’epica classica, argomenta Lukáks, esprime culture formate, con valori chiari, identità forti, modi di vita stabili. Mentre il romanzo europeo si fonda sull’esatto opposto: su un società in mutamento, in cui l’eroe di una classe media mobile e senza obblighi, o l’eroina, si costruisce un nuovo mondo – anche se spesso è un modo vecchio da tempo e validamente abbandonato.
Ma forse non è (più) vero: più che un mondo nuovo il romanziere si costruisce un suo mondo.

V.S.Naipaul, nato e cresciuto a Trinidad, da famiglia indiana, Nobel per la letteratura nel 2001 in quanto autore britannico, si gloria di non avere radici. Anche se deve il successo all’humour caraibico dei primi romanzi. Ma i Caraibi ceto non sono una patria. A ridosso e dopo il Nobel Naipaul ha viaggiato in India, che non gli è piaciuta e ne ha scritto da estraneo.
Ma non solo V.S. Naipaul, tutti gli anglo-indiani vivono a Londra meglio che in India. Gli anglo-fiorentini erano inglesi anche alla terza o quarta generazione, gli anglo-indiani sono inglesi subito, al primo libro.

Kafka – Il “problema” Kafka è il problema dell’insonnia? Più della tubercolosi certamente. L’insonnia non è la cosa semplice che non si considera, come il raffreddore o l’influenza. È una privazione, sotto forma di coscienza sveglia, perenne, acuminata, e alla fine una vertigine. Calasso, “K.”, ne ha la percezione quando dice, delle ultime settimane di Kafka: “Il tempo interno si è strappato dal tempo esterno e corre una corsa folle, la veglia è perenne, angustiante”.
L’insonnia impone e acumina l’autocoscienza, fino al circolo vizioso o vicolo cieco: l’ “altra veduta” del mondo, del mondo esterno, uno scavo incessante di verità, sempre più vere, sottili, sfuggenti. Fino all’impazzimento, per assottigliamento. Che il bisogno creativo traduce in spasmo, anche allucinato.

Pound - Il maggior innovatore formale, della poesia e anche della prosa, del Novecento era soffocato dalla politica. Come il suo Dante, ma senza la sua capacità di padroneggiarla. Ne è stato vittima per la seconda metà della sua vita, e lo è rimasto.

“L’economia è al più grande frode che si sia consumata in questo mondo”, è la conclusione di Robert Skidelski dopo lunghi studi dell’economia stessa, per questo nominato baronetto dalla regina: “L’economia non ha mai fatto nessuno felice”. È sempre la “scienza triste” di Carlyle. “Dovrebbe essere una scienza morale ma non lo è”, conclude Skidelski. Finisce che ha ragione Pound, o comunque non è solo.

letterautore@antiit.eu

Nessun commento: