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domenica 6 aprile 2014

Galileo santo

“Nessuna proposizione può essere contro la Fede se prima non è dimostrata essere falsa”. Una tale professione di fede, neppure i papi attuali, Benedetto e Francesco, che vi si sono aggirati intorno, sono riusciti a quagliarla. E tuttavia non ha salvato Galileo da vent’anni di processi alle intenzioni, angherie, soprusi, e dieci di reclusione in casa. Qui, agli inizi del “processo” nel 1615, Galileo si dice vittima “d’ingannevoli apparenze, di paralogismi e di fallacie”. Ma era vittima della Chiesa, del papa, di un santo.
Questa edizione riunisce le quattro “lettere copernicane” che Galileo scrisse tra il 1613 e il 1615, a ecclesiastici e alla granduchessa di Firenze, madre del suo protettore, il granduca Cosimo II,  per disinnescare la canea montante dei mediocri. Rifacendosi ai padri della Chiesa, di cui mostra una conoscenza approfondita,  con lunghe citazioni in latino. Specie a sant’Agostino, contrario a un’interpretazione alla lettera delle Scritture: chi “volesse fermarsi sempre nel nudo senso literale, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni lontane dal vero,  ma gravi eresie e bestemmie ancora”. E così seguitando, con argomentazioni convincenti,  Galileo oltre che scienziato è ottimo scrittore - il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” volle dirlo Calvino. Con un’ermeneutica biblica più assennata teologicamente di quella dei teologi suoi nemici.
Alla granduchessa come agli altri corrispondenti, Galileo espone un assioma semplice, che si reputa moderno: la fede è una cosa, la scienza è un’altra. Da fedele credente: “Io non dubito punto che dove gli umani discorsi non possono arrivare, e che di esse (credenze astronomiche, n.d.r.) per conseguenza non si può avere scienza,  ma solamente opinione e fede, piamente convenga conformarsi assolutamente col puro senso della Scrittura”. Una dottrina incontestabile, che Galileo, solitamente sobrio, ribadisce alla granduchessa per una cinquantina di pagine. Senza riuscire e prevenire, dopo diciott’anni di persecuzioni, la condanna. Che non ebbe nessuna ragione, anche presso il suo primo giudice Roberto Bellarmino, se non la volontà del papa Urbano VIII, il letterato fiorentino Maffeo Barberini, prima amico e poi nemico di Galileo – Redondi dirà, “Galileo eretico”, per proteggerlo dall’accusa più grave di eresia, ma è un’ipotesi.
Nelle note alla “Vita di Galileo”, in una delle ultime, spiegando reiteratamente che il suo dramma non è contro la Chiesa, Brecht scrive: “La scienza moderna è una figlia legittima della Chiesa, che si è emancipata e ribellata alla madre”. Le “Lettere copernicane” si rileggono a fatica, più che con fastidio, per l’irrilevanza oggi della questione – allora la pretestuosità, l’insolenza. Si apprezza la fede sincera di Galileo – non furbo, non accomodante, non opportunista, come si fa sospettare, dagli stessi suoi sostenitori. La sua cultura – Galileo lo si vorrebbe laicamente una sorta di bricoleur, sia pure geniale, ma è uomo dotto. Dei suoi nemici invece non resta traccia, specie nella materia: cosa volevano, cosa opponevano? La storia di Giosuè, per il quale “Dio fermò il sole”. E sembra impossibile – Giosuè s’intende da tempo figura mitica, contestandosene l’esistenza, prima ancora che le imprese solari.
Il processo del 1616 fu tenuto al Sant’Uffizio da un gesuita candidato autorevole al soglio e poi santo, Roberto Bellarmino, che era stato al centro anche della condanna di Giordano Bruno. Si fa valere che Bellarmino era amico considerato di Galileo, ma e la dottrina?  Non l’eliocentrismo ma la metodologia, di cui Galileo invece nella lunga lettera alla granduchessa madre è così esperto? La condanna del 1933 alla prigionia in casa, senza possibilità di parlare con amici o discepoli, fu voluta da un papa che si pregiava di magia e fu simoniaco, Urbano VIII Barberini, di cui due dei nipoti, giovani cardinali, erano membri del collegio giudicante. Il processo, la condanna e l’abiura di Galileo non sono affari seri. Ancora l’altra domenica il cardinale Ravasi sul “Sole 24 Ore” ne faceva grande caso ma non è così – se non per il peccato della Chiesa, di stupidità. Non era questione di fede - la corrispondenza di Copernico con le Scritture non è questione di fede - ma di invidia e gretta ignoranza.
Questa edizione ricalca quella che Giovanni Gentile approntò e pubblicò nel 1943, compresa la sua nota editoriale. Gentile, contro quella che sarà l’opinione di Brecht, vuole Galileo “di pensiero indomito”. Non è del tutto vero, alla fine Galileo abiurò, seppure dopo diciott’anni. Ma è vero, come dice il filosofo, che a Galileo importano “non tanto la distruzione di due diversi domini, dogmatico e razionale, e la dimostrazione delle loro irriducibili differenze (al che sarebbe occorsa una dottrina che in Galileo manca); quando piuttosto la dimostrazione dei diritti della libera ricerca scientifica”. Purché si elimini la parentesi: Galileo in realtà è più intelligente e persuasivo dei suoi nemici teologi, da buon credente, per sana e robusta costituzione morale e culturale, se non propriamente teologica.
Galileo Galilei, Lettera a Cristina di Svezia sui rapporti tra l’autorità della Scrittura e la libertà della scienza, La Vita Felice, pp. 109 € 10,50

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