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giovedì 22 gennaio 2015

Letture - 201

letterautore

Amore – “È un sentimento religioso”, Federico-Hemingway convinto fa dire al vecchio conte Greffi, “dei tempi di Metternich”, risuscitato giusto per questo, sul finale di “Addio alle armi”.

Anglo-indiani – Patrick Leigh Fermor li dice “estranei”. Sia in India che in Inghilterra, e in famiglia, nelle copie miste. Avendo personalmente sperimentato questa condizione: nato e cresciuto a Londra da una madre nata in India, dove anche la sorella maggiore era nata, e un padre funzionario in India che aveva diritto alla vacanza in Inghilterra ogni tre anni, tornava in Inghilterra. I genitori si erano separati quando lo scrittore aveva sette anni, e  il rapporto col padre dice “da semi-estranei, malgrado sforzi determinati da entrambe le parti”. Mo non per la separazione, perché il padre, vivendo in India, scriveva, parlava e pensava in forme estranee. Il comune veicolo linguistico – nel caso di Patrick Leigh Fermor anche carnale - non supplisce alle altre differenze.
Gli scrittori anglo-indiani di maggiore rinomanza, Naipaul, Rushdie, confermano la conclusione di Leigh Fermor: estranei alle comunità di origine e anzi rifiutati, ospiti a Londra. Il veicolo linguistico allontana, divide, spersonalizza, invece che rafforzare: la lingua è viva in rapporto a una forma di vita.
Lo stesso si vede in piccolo in Italia, con gli scrittori – in maggioranza scrittrici: Edith Bruck, Helga Schneider, Ornela Vorpsi, Helena Janeczek,  Talye Selasi, Helene Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, tra gli altri, forse anche Jhumpa Lahiri, in aggiunta a Amara Lakhous e Younis Tawfik – di varia origine che hanno scelto l’italiano per esprimersi.

Critica – Molti saggi in Francia, e qualcuno anche in Italia, sul romanzo islamico di Houellebecq prima che uscisse, e prima delle stragi parigine. Niente dopo, neppure una riga. Si può presumere che in Francia i critici lo abbiano letto in bozze, anche se le bozze sono state disponibili solo una settimana prima dell’uscita – il romanzo è stato approntato in pochi giorni. Lo stesso per i critici italiani, qualcuno sarà stato in grado di leggerlo in originale. Ma perché non parlarne dopo? Di un romanzo che – quali che siano i suoi pregi letterari – si impone per l’attualità politica. La critica è preordinata alla lettura. È una forma di consigli per gli acquisti. Ma passivamente?

Mito – Valéry, che ne è creatore moderno, era scettico: “I nostri avi si accoppiavano nelle tenebre a ogni enigma, e gli facevano strani figli”, annota in una delle “Varietà”. Il mito è il tema su cui più torna, ma come se gli sfuggisse – da ultimo nella “Letterina sui miti”: “Mito è il nome di tutto ciò che non esiste e non sussiste che avendo la parola coma causa”. Una qualsiasi, anche la semplice  chiacchiera? “C’è sempre una supposizione che dà un senso al linguaggio più strano”. La parola che “è quel mezzo di moltiplicarsi nel niente”:…. : “Tanto la parola ci popola e popola tutto che non si vede come fare per astenersi dalle immaginazioni di cui niente succede…”.
Molto prima aveva già annotato:  “Una consonanza, tavolta, fa un  mito. Grandi dei nacquero da un calembour, che è una specie di adulterio”.
Però conclude: “I miti sono le anime delle nostre azioni e dei nostri amori. Noi non possiamo agire che muovendoci verso un fantasma. Non possiamo amare che ciò che noi creiamo”.

Pasolini – Ci sono due Pasolini. Uno è quello delle stitiche conferenze sulla lingua e i dialetti, in falsetto con Moravia nelle Case della cultura e ai Lunedì delle signore nei primi anni 1960. Delle nasalità di cui è farcito “Ragazzi di vita”, l’opposto del dialetto, che è carnale per essere tribale. Del birignao alle promozioni: “Utilizzerà la musica nei suoi film?” “Solo Bach. Solo quella è musica”. Quale Bach? “Che ruolo attribuisce alla parola nel cinema?” “Il dialogo è suono di fondo”.  Della conferenza sulla lingua basata su reperti del tipo Citati che sentì “esatto” invece che “sì” quella volta che prese il treno, col corredo del Bel Paese dove il sì suona, Calvino che in commissariato ascoltò il verbale, quella volta che gli rubarono la macchina, il prontuario Rai delle parole da evitare, Moro che infligge se stesso.
È stato il padre che rifiutava, dispotico, fascista. Contro gli studenti nel ‘68 e contro tutti: i lettori, che imboniva di retorica, gli amanti, che voleva bruti, la politica, la destra pretendendo d’imporre alla sinistra, e alla fine se stesso. Non una vittima, il poeta come Kavafis sapeva, che cantava “la diversità che mi fece stupendo”. O la leaderistica sarà stata il segno del tempo, “privo d’ironia”, che il poeta vantava, una pace prolungata si alimenta di minute inquietudini, infantili trasgressioni. Dannunziane, si direbbe, in piccolo, in ritardo, ma bisognerebbe sapere chi era D’Annunzio, che pure era pieno di se stesso ma non avrebbe detto: “Amo la mia pazzia di acqua e assenzio,\ amo il mio giallo viso di ragazzo,\ le innocenze che fingo e l’isterismo\ che celo nell’eresia o lo scisma\ del mio gergo, amo la mia colpa”.  
Susanna, la madre dolce che cancella il marito, è il tremulo nibbio di Leonardo e Freud, lo è nei geroglifici in Egitto. Nella leggenda cristiana il nibbio è solo femmina, fecondata dal vento, novella Vergine. Se l’omosessualità, forzatamente senza figli, è narcisista, la moltiplicazione delle marchette è un martello pneumatico contro se stessi, una forma di autocrocefissione, la morte oscena. Non si sa di un erotismo goduto infernalmente, neppure in Sade. Non nell’esercizio esasperato dell’omosessualità, la retorica del genere è mite. Voleva essere il Poeta della Vita, di ciò che è. E la realtà, essendo beffarda, gli ha restituito odio e umiliazione.

Risorgimento – Quello letterario finì presto. Con non molte opere. Anzi, si può dire che non cominciò: registra una sola opera, le “Confessioni di un ottuagenario”, pubblicata tardi, come un residuato - anche se a ogni rilettura viva, il sentimento risorgimentale c’era, ed era potente. Nievo e le sue “Confessioni” furono solo preceduti dalle “Mie prigioni”. E seguiti da qualche – non granché – epopea garibaldina.
L’Antitalia ha invece debuttato presto in letteratura: Roma è corrotta e spregiudicata già nel 1883, anno di uscita di “L’eredità Ferramonti”, di Gaetano Chelli. Due anni dopo Matilde Serao recidivava, con “La conquista di Roma”. Presto imitati da molti, compreso il siculo-napoletano De Roberto, “I viceré”, 1891-4, forse il più cattivo. Fino a “I vecchi e i giovani” di Pirandello, una sorta di anteprima del “Gattopardo”. Questo si può dire dunque genere meridionale.

Romanzo – Valéry lo appaia al sogno per il fatto che  “tutti gli scarti gli appartengono”, a entrambi.
Valéry aveva del resto del buon romanzo un concetto semplice, che “il sussegursi ci trascini e perfino ci risucchi verso una fine”.

Soap opera – Nacque negli anni 1940 alla radio (alla radio americana): storie (romanzi, racconti, commedie, seriali) pagate dalle industrie del sapone, che erano cinque e in aspra concorrenza. Concepite per le ascoltatrici, che erano quelle che compravano i saponi, in orari di ascolto domestico, nel mentre che si facevano i lavori in casa, la mattina dopo la colazione. Nulla è cambiato, eccetto gli sponsor?

letterautore@antiit.eu

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