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lunedì 19 gennaio 2015

Il calo-petrolio non fa male

Il calo del petrolio aumenta la spesa – la propensione al consumo, e agli investimenti – e non la riduce.
Una sorta di panico viene diffuso dalle banche d’affari, che sono le fonti della nostra informazione economica, forse per pigrizia mentale, forse a fini speculativi, che non ha fondamento. Si calcola un effetto positivo del calo-petrolio solo sul’economia italiana, e molto limitato, di uno 0,5 per cento di pil – con uno 0,3 per cento per la Spagna, altra grande importatrice di idrocarburi.  Sull’eurozona si calcola un effetto zero. Ma con un effetto molto negativo per le altre grandi economie europee, attorno all’1 per cento di decrescita del pil - per gli Usa si sale addirittura a un meno 1,8 per cento.
Si computa statisticamente il calo del prezzo del greggio tra i fattori  deflattivi, tra i tanti prezzi cioè in diminuzione, e il petrolio incide su molti fattori di costo e quindi su molti prezzi. E quindi, indirettamente, di scoraggiamento, o rinvio, dei consumi. Mentre il contrario è vero: il calo del greggio stimola e incrementa la propensione al consumo. Per l’energia, che non è un bene durevole, ma di consumo immediato, il calo dei prezzi non scoraggia e non rinvia, funziona al contrario. Proiettando in ragione d’anno i corsi attuali del greggio, rispetto al prezzo massimo di 115 dollari a barile, si avrebbe per l’economia italiana un risparmio di 28 miliardi della bolletta energetica, una vantaggio produttivo enorme, specie per le piccole e medie imprese, e di bilancio familiare. Il calo del greggio anticipa e accelera in qualche modo i consumi e gli investimenti.
Un mercato politico
Ma fa tanto male il calo del petrolio, come si legge? Alle compagnie petrolifere, ai paesi esportatori, al povero Putin, ai poveri re e emiri del Golfo, agli assetti finanziari mondiali? Questa “crisi” - movimento rapido e acuto dei prezzi – conferma che il mercato del petrolio ha un assetto politico prevalente su quello di mercato, che solitamente si risolve nel gioco della domanda e dell’offerta.
Gli assetti finanziari sono flessibili, guadagnano sia dall’aumento e dal calo. Il calo del petrolio lo gestiscono, se non Putin, i re e gli emiri del Golfo. Per tagliare la produzione del petrolio alternativo, dagli scisti bituminosi, un settore energetico ad altissimo costo, anche per l’ambiente, in cui il Nord America si è impantanato. Ufficialmente a fini di diversificazione strategica dell’approvvigionamento, di riduzione della dipendenza dai paesi esportatori. In realtà per un boom artificioso: Oltre la metà, il 54 per cent, dei 105 mila nuovi pozzi di petrolio trivellati nel 2013, erano in Nord America. Un artificio che i paesi arabi del Golfo hanno sostenuto, grati della protezione militare americana, ma fino a un certo punto: fino a quando gli altissimi rendimenti che il caro-petrolio ha loro garantito non è entrato in conflitto con il controllo del mercato e dei prezzi stessi, che i paesi del Golfo stavano per perdere. Sono paesi che devono tutto politicamente agli Stati Uniti, ma che sanno mercanteggiare – sanno come s fa il mercato.

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