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venerdì 1 maggio 2015

Quando il Sud aveva una storia

“L’eterna teoria del lasciar fare e lasciar passare mi pare che non debba applicarsi senza qualche
restrizione; giacché altrimenti passano solo la miseria e la corruzione”. Detto da destra. Villari non fu l’inventore della questione meridionale, contrariamente alla vulgata (quello sarà Salvemini, di Villari allievo: “L’unità d’Italia è stata per il Mezzogiorno un disastro”), lui era un unitarista convinto, ma della questione sociale. Cosa su cui invece si sorvola, da destra e anche da sinistra. Perché l’ha proposta da storico rispettoso della realtà, e quindi da una scomoda posizione: è l’Italia unita che lascia i poveri e bisognosi allo sbando, senza assistenza e senza prospettive, nelle “Lettere” di Pasquale Villari del 1862,  a ridosso dell’unificazione e dell’applicazione delle leggi eversive: le rendite mantenevano i poveri e i malati bisognosi. Se ne appropria la borghesia, sotto il pretesto dell’anticlericalismo, e ogni sua funzione sociale è cancellata, se non sotto le specie dell’avidità e la corruzione.
Quando pubblicò le “Lettere meridionali” più tardi, nel 1876, lo storico espunse queste prime che aveva mandato alla “Perseveranza” di Milano nel 1861 e nel 1862 - di cui già aveva fatto una plaquette (l’edizione online riproduce anche queste). Qualificandosi più per propugnare una politica liberale, che oggi di direbbe di sinistra. “Quando io penso a quello che ha fatto in questi ultimi anni il Ministero conservatore dell’Inghilterra (dove lo storico napoletano aveva risieduto, n.d.r.) in favore dei poveri… mi sento per la vergogna salire il rossore sul volto”.
Due delle lettere seconda serie, dirette al direttore dell’ “Opinione”, sono analisi tuttora valide de “La camorra” e “La mafia”. Villari pone l’origine della camorra nell’abolizione del feudalesimo e nell’unificazione dell’Italia. Nell’uso spregiudicato dei camorristi come gestori dell’ordine e del commercio da parte di Liborio Romano, il ministro borbonico dell’Interno passato con Garibaldi, e dei nuovi amministratori. E nell’abbandono a se stessa della plebe da parte dello stato unitario. Mentre in antico la Corte, le grandi famiglie e i conventi davano di che vivere alle masse. C’era un equilibrio, seppure non produttivo.
“Un primo colpo” questo equilibrio “lo ebbe dall’abolizione del feudalismo. Le grandi fortune si divisero, incominciò la piccola proprietà, e, per le mutate leggi, una serie di interminabili litigi innanzi ai tribunali. Molto se ne avvantaggiarono il ceto degli avvocati e la borghesia; ma la plebe si trovò come abbandonata, perché le scemate fortune non potevano facilmente aiutarla, e le nuove industrie non sorgevano”. Più tardi Villari osserva: “La legge suppone che il camorrista non faccia altro che guadagnare indebitamente sul lavoro altrui. Invece esso minaccia e intimidisce, e sempre per solo guadagno; impone tasse; prende l’altrui senza pagare; ma ancora impone ad altri il commettere delitti, ne commette egli stesso, obbligando altri a dichiararsene colpevole; protegge i colpevoli contro la giustizia… L’organizzazione più perfetta della camorra trovasi nelle carceri, dove il camorrista regna. E così, spesso si crede di punirlo, quando gli si dà solo il modo di continuare meglio la sua opera”.
Della mafia molto c’è di nuovo. Ma sulle origini è Villari ancora il migliore interprete: la mafia fa capo ai paesi vicini a Palermo, segnalava nel 1875, ai Monreale e Partinico, e cioè alla Conca d’Oro e al Golfo di Castellammare, dove non esiste grande proprietà, e la piccola proprietà è dominante. La piccola proprietà che recinge la città, chiusa tra le sue grandi famiglie, domina il paese, in accordo con gabelloti, campieri e commercianti di grano, con l’usura e la violenza. La mafia nasce nella Sicilia occidentale “dalle condizioni speciali della sua agricoltura”. La mafia e il brigantaggio sono la conseguenza di una crisi sociale acuta: è tesi della Destra liberale, che Villari anticipava, ma che altro c’è da dire?
Una miniera di “novità”. Compresi i  greci della Calabria e in Terra d’Otranto, “dove si parla un dialetto, ch’è assolutamente greco”. Una peculiarità di cui non si parla, o giusto perché i tedeschi ne parlano: “Il Niebuhr aveva già notato questo fatto; più tardi qualcuno dei nostri canti popolari greci fu pubblicato in Germania; e vi furono anche dei dotti i quali pretesero sostenere che quello era greco antico”. Dotti anch’essi tedeschi, questa storia non riguarda l’Italia. Poi si cala il sipario: la storia è scomparsa dal Sud.
Pasquale Villari, Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia, free online 

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