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sabato 21 ottobre 2017

La rivoluzione francese tradì la democrazia

La Francia è l’unico paese che favorisce l’indipendenza degli altri popoli. Come a dire: ma non la sua. Quanto la democrazia deve all’ingenuità del Necker,  del Mills (John Mills, il primo traduttore in francese della “Cyclopaedia or an universal dictionary of arts and sciences”, ispiratore della più celebere “Enciclipedia” illuminista)? Quanto il Terzo Stato deve a Mirabeau, respinto dai nobili, e a Sieyès, respinto dal clero - con Fouché, prefetto del collegio degli Oratoriani.
Un Manzoni pieno di sorprese, ma impubblicabile. Perché non finito? Molto controcorrente nella sua epoca, gli anni 1860. Ma poi anche dopo: è una critica della rivoluzione dell’Ottantanove. Il curatore dell’unica edizione del saggio, nel 1940, intitolato “Storia incompiuta della rivoluzione francese”, Gian Franco Grechi, doveva premettere: “L’Opera qui pubblicata è una delle meno fortunate del Manzoni”. Ma per un motivo preciso, che si può condividere anche in epoca non fascista, specie dopo il riesame della rivoluzione stessa in occasione del bicentenario. Nuoce all’opera “l’inequivocabilità del giudizio negativo” sula rivoluzione.
È una difficiltà che lo stesso Manzoni si prospettava poco dopo l’inizio, seppure nella triplice ipocrita negazione: “Non possiamo non preedere che questo scritto si troverà a fronte d’opinioni contrarie”. Per lo stesso motivo forse non portava il saggio a conclusione, benché ci abbia lavorato per una dozzina d’anni – o perché era tenue il raffronto con la “rivoluzione italiana del 1859” del progetto originario (il titolo di lavorazione è “”La rivoluzione francese del 1798 e  la rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative”), di cui si trovano tracce trascurabili. Lo stesso curatore dice il titolo “Storia incompleta” un falso storico, poiché “non è un lavoro propriamente storico”. E invece lo è. Anche fondato, non più scandaloso, dopo le revisitazioni e gli approfondimenti con esito revisionistico di François Furet per il bicenteneraio trent’anni fa.
È un libro datato. Il revisionismo fu d’obbligo per gli high tories alla Restaurazione – Chateuabriand aveva già un “Essai sur les revolutions”. La revisione era anche generale nel movimento romantico. Manzoni provvederà tardi, ma ci pensava evidentemente da tempo, accumulava materiali. Un po’ don Abbondio forse, non avendo il coraggio di esporsi, lo farà al coperto della “rivoluzione italiana del 1859”, di cui poi si dimentica. E tuttavia per tantissime cose ancora nuovo. Per i particolari di varie vicende. E di più per gli aspetti costituzionali o giuridici, che la rivoluzione calpestò liberamente. Sul concetto di legittimità, degli atti e delle istituzioni. E su quello dei diritti, compreso quello di libertà. Nel suo piccolo e praticamente inedito anticipando Rawls, e le basi etiche del diritto.
La storiografia di fine Ottocento, primi del Novecento, concorde rifiutò l’opera alla sua prima fugace apparizione nelle opereccomplete. Su base liberale. Salvemini e Omodeo la ignorarono del tutto nelle loro storie della rivoluzione. Salvatorelli la cita in tre righe nella “Storia del pensiero politico italiano dal 1700 al 1870”, giusto per dirla “senile requisitoria legalistica”. Croce aveva giudicato “assurdo” il giudizio in “termini giuridici” di una rivoluzione. Ma si fa leggere.
Tra i conservatori Manzoni era e resta il più laico e democratico. Molto legato, anzi, alla democrazia, al di là delle convenienze liberali, dei ceti proprietari. Tra i cattolici forse neanche i più progressisti, Rosmini e Balbo, si spinsero come lui per la democrazia pura e semplice, anche in questa incompiuta. Ed è “francese”, abbastanza per essere considerato non sciovinista, non uno prevenuto. Lo era di formazione (studi, frequentazioni) e  di gusto. Ebbe e mantenne buoni contatti dopo il ritorno da Parigi, scrisse in francese. E aveva grande equilibrio politico, e capacità di analisi. I temi storici che solleva nel saggio sono molti. La scusa dei tiranni. La servità volontaria. Gli scalmanti spettatori dell’assembela del Terzo stato che diventano il “popolo”. “L’arbitrio che usurpa un potere supremo, o crea un dispotismo o apre la strada a una serie indefinite di altri arbitrii; e né l’uno né l’altro è libertà”. Molto se ne potrebbe citare.
Molto e in dettaglio critica i protagonisti occulti della rivoluzione, in più fasi: Mirabeau, Fouché, Bailly, nonché “la metafisica dell’abate Sieyès”. Sono due dei maggiori latifondisti, Noailles e d’Aguillon, che propongono l’abolizione di tutte le servitù. La dichiarazione dei diritti in America è politica (parità fra i popoli, fra gli Stati) in Francia è filosofica:”Quella di Filadelfia era una soluzione, quella di Versailles, con le stesse parole, poneva il problema”.
Molta saggezza politica vi è dispensata. Buona per conoscere meglio Manzoni, se non per la storia delle idee. “Qualche volta le parole sono più difficili e intrattabili delle cose”. “L’antilogia conduce facilmente all’antifrasi”, quando ci si agita troppo. “Nei tempi moderni, e in un vasto Stato, la ragione d’essere del dispotismo non è in un recinto fiancheggiato da torri e circondato da fosse, ma nelle circostanze che dispongono gli animi a subirlo e qualche volta a desiderarne uno, per sottarsi a uno peggiore o alla licenza. Che non è, come le definiscono molti, l’eccesso della libertà, ma una pessima specie di sdspotismo: quello, cioè, dei facinorosi sugli uomini onesti e pacifici”. “In tempi di rivoluzione (intendo sempre una rivoluzione che distrugge un governo senza sostituirgliene un altro), ogni atto politico non può che essere rivoluzionario, cioè il resultato di una forza che prevalga, in un dato momento, indipendentemente da leggi o istituzioni”.
Alessandro Manzoni, Storia della rivoluzione francese

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