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martedì 17 ottobre 2017

La filosofia di Voltaire senza storia

Ci sono dunque tanti volteriani in Italia, da meritarsi un impegnativo Millennio per le sue divagazioni di storia, invece di un più comodo tascabile – un Millennio, certo, dopo Chateaubriand, “Memorie d’oltretomba” (una forma di compensazione?). A un certo punto Voltaire, polemista, poeta, drammaturgo, narratore, philosophe, si fece storico. Anche come autore è stato storico, specie in teatro: una quarantina di tragedie scrisse e una ventina di commedie tutte di soggetto storico. Ma con questo “Saggio” ha mirato proprio alla storia.
Contro le religioni, con l’aiuto dei frati
Non da ricercatore, Voltaire lavorava sulle opere degli altri, essenzialmente un paio di voluminose compilazioni di contemporanei. Da analista della storia - al modo come sarà più famosamente Hegel, anche se non altrettanto sistematore. Vuole inventare la storia come disciplina, e per questo la rifà, anche di posti remoti e per lui reconditi, come la Cina e l’India. Da un punto di vista che non sarà più escludibile: è lui che teorizza e applica la filosofia della storia che poi farà alluvione.  
Scrive il “Saggio” a più riprese, lungo la sua seconda vita. Lo inizia attorno al 1740, lo riedita fino al 1775, e notevoli variazioni lascia per l’edizione finale postuma. Il saggio trasformando in racconto, che per questo forse ancora si legge. Non è possible fare la filosofia della storia, si dice a un certo punto, senza raccontarla. E dalle 12 pagine di progetto arriva alle 1.200, un capitoletto dietro l’altro per quasi duecento. Era anche l’epoca delle “storie universali”, di ecclesiatici, don Calmet, l’abate Lambert, e non, Puffendorf, e di organizzazioni – la coeva “Storia universale” inglese in 46 volumi, in-quarto.
Anche la “filosofia” è particolare. Un saggio, “Filosofia della storia”, diventa “Discorso preliminare” al “Saggio” che ora si riedita. Non la filosofia della storia quale comunemente si intende con l’idealismo, tedesco e italiano, da Hegel in poi, ma un senso, una interpretazione degli eventi storici. Un filo conduttore dell’opera c’è: è il principio di razionalità, contro i fanatismi e le religioni. Ma una buona parte dell’“opera empia” l’irreligioso Voltaire prepare e redasse nel monastero di Sénones, presso Plombières, ospite dell’abate Calmet, storico innovatore, con l’aiuto dei frati solleciti – la coerenza non è un valore.
Il filo del “Saggio” Furio Diaz trovava, 1958, “Voltaire storico”, in un “istoricismo progressista”. Questo non è vero. Voltaire afferra “la natura degli uomini” dai loro costumi, dalle abitudini. Da ciò che fanno, non da un principio astratto: “L’istinto, più che la ragione, conduce il genere umano”. Una linea di ricerca che era stata quella di Vico, “Principi di una scienza nuova”, 1725 – che però Voltaire non conosce, non direttamente. Il suo ancoraggio è a Bossuet, “Discorso sulla storia universale”, il primo a fiosofare sulla storia. Comincia anche la sua narrazione, nel progetto iniziale, da Carlo Magno perché lì Bossuet si era fermato.
Le riedizioni successive lo assolvono per la ancora scarsa diffusione delle conoscenze nel Settecento, specie geografiche ed etnografiche – l’età era ancora della scoperta. Gli accreditano l’apertura di nuovi filoni interpretativi su molte vicende. Di criteri nuovi anche di valutazione. Ma non è un’opera storica. Non nel senso di opere successive, Gibbon, Michelet, “Declino e caduta dell’impero romano”, “La rivoluzione francese”, che a questo Voltaire in qualche modo si rifanno, scientificamente sorpassate ma sempre godibili, perciò anche istruttive.
La storia è verosimile
Molto Voltaire si basa sul verosimile. Inverosimile che i turchi abbiano offerto la corona al re francese Luigi, benché santo: era prigioniero e infedele. Con qualche aporia. Inverosimile che Richelieu, amante di Marion Delorme, abbia raccomandato morendo la castità a Luigi XIII. E perché no? Anzi, è verosimile il contrario. Non è il solo caso, la verosimiglianza è traditrice. Questa di Voltaire di più, poiché il vero e la natura sono dell’Europa, nel Settecento. Meglio: della Francia, anzi di Parigi, nel Settecento – il “Capitolo delle arti”, architrave del primo progetto, è l’elogio del teatro in Francia sotto Luigi XIII. E si basa su un solo fondamento, il testo scritto. Anche recenziore, ma scritto: la storia si scrive sui libri. Monumenti, credenze, tradizioni?
Molto lo storico trascura anche la sua contemporaneità, se vera più che verosimile. La prima pubblicazione del “Saggio”, pirata, a Amsterdam, a fine 1753, sotto il titolo “Abregé de l’histoire universelle”, gli aliena le simpatie dei sovrani europei, Luigi XV, Federico II di Prussia, le zarine, Maria-Teresa d’Austria. Voltaire passa per un nemico delle teste coronate e forse un regicida, avendo scritto alle prime righe: “Gli storici, simili in questo ai re, sacrificano il genere umano a un solo uomo”. Che era vero, e la cosa più giusta dello storico Voltaire. Ma non piacque ai sovrani protettori, e Voltaire fece ammenda, sconfessando la pubblicazione e tagliando successivamente il riferimento.
Mentre Voltaire scriveva la prima redazione del “Saggio”, si combatteva la Guerra dei Sette Anni. La primissima guerra mondiale, secondo Churchill. Combattuta in mezza Europa, in India e nelle Americhe. Con Federico II I prima linea, alleato della Gran Bretagna, con la quale ne uscì vincitore, potenza continentale. Mentre la Francia si ridimensionava sensibilemente: non era più la prima potenza coloniale, la Gran Bretagna la soverchiava in Nord America, in India e nel commercio col Sud America, e una grande Potenza ostile era sorta nel continente, sul fianco Est, la Prussia. Ma di questo riassetto secolare non c’è ombra, neanche delle poste in gioco.
Il buonsenso non difetta. Non c’è civiltà senza lavoro: lo spirito si raffina nel benessere materiale. E il benessere collettivo viene con la pace tra gli Stati. Più spesso ci azzecca sulla religione, che detesta – l’impostura. L’ebraismo non va separato dal Medio Oriente: deve molto all’Egitto, e in un secondo momento al dualismo iraniano, di Satana e i demoni. Intuisce, anche se non ne sapeva molto, il peso dell’India, e della Cina, le forme religiose comprese. Il senso pratico coglie del misticismo dei costruttori di fede, quale Ignazio di Loyola – dei santi: “L’entusiasmo comincia sempre la costruzione, l’abilità la complete”.
Riletto, però, al tempo della globalizzazione, e comunque del rifiuto dell’eurocentrismo, il “Saggio” sconfina a volte nel ridicolo. Non c’è razionalità, costume, norma che non sia quella europea del Settecento, dei Lumi. Nessun accenno di comparazione, quali gli storici sono abituati a fare dal tempo di Erodoto. Con quel rifiuto apriori del vero, specie se strano, non confacente. Anche sbrigativo: nonché non cercare o verificare le prove, non è necessario leggere tutti i libri, Voltaire compila le sue vaste conoscenze sui pochi centoni che gli inquadrano la verosimiglianza.
Il popolo è bestia
Storia d’autore, si potrebbe dire. Il procedimento è quello teatrale – Voltaire soprattutto si riteneva grande autore di teatro: della rappresentazione. Prendere gli elementi di un evento, personaggi, moventi, ambizioni, e farli interagire. D’autore anche nel senso di che cosa pensava Voltaire, di Carlo Magno, delle crociate, di Maometto. Da un punto di vista molto personale, quello di un Autore soverchiante, in Francia, a Parigi, a metà Settecento. Scritto con disinvoltura. Il controllo delle fonti, effettuato da René Pomeau nel 1962 su alcuni saggi, quattro gruppi di circa 150 pagine l’uno, ha riscontrato un numero limitato di riferimenti falsi (nove in tutto, su 380), ma un numero abbastanza elevato, 61, di citazioni modificate, inesatte o non rintracciabili (inesistenti).
Voltaire tratta di tutto, e risolve svelto le questioni: lo “spirito degli uomini” (il mentale, la volizione), la religione, il clima, i governi. Manca l’economia, anche se Voltaire sa che “ci sono state tante rivolzioni nel commercio che negli Stati”. E la democrazia: degli Stati non entra nel merito, nella forma di governo, monarchia, repubblica, democrazia, aristocrazia. C’è solo il potere, da una parte, e dall’altra il libero cittadino – intellettuale. Il popolo è bestia – qui Diaz sbagliava: “Il volgare è in ogni paese feroce”, credulo, vile.  La storia più spesso è “quella di alcuni capitani barbari che si disputavano coi vescovi il dominio su servi imbecilli”. Al popolo mancano singolarmente “la ragione e il coraggio”. Che sono virtù “poco condivise” ma al popolo mancano del tutto: vuole essere “divertito e ingannato”, non vuole altro. Un buon tiranno è meglio: “Non si è quasi mai”, a proposito di Enrco il Navigatore, “fatto niente di grande nel mondo che per il genio e la fermezza di un solo uomo che lotta contro i pregiudizi della moltitudine”.
Il Millennio è curato da Domenico Felice, lo studioso di Filoofis dell ìuniversitòà di Bologna.

Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, Einaudi Millenni, 2 voll., pp. CLIV-1830, ill., ril. € 150

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