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mercoledì 13 dicembre 2017

Il fantasma di Carlo Marx – 3

astolfo

I cattivi di Dostoevskij non sono “cattivi”. Il rischio è sempre quello, in questo e in ogni cosa, di finire grandi masturbatori, alla D.H.Lawrence, non altrettanto innocui. Marx, il Prometeo intellettuale, è finito moderno uomo di pensiero, specialmente orfano di Dio e quindi piegato sull’angoscia, che si rappresenta le proprie paure senza sfidarle e forse ne gode – è  uno che immagina di godere nella disperazione. Oppure è figlio d’una classe perdente, la borghesia, che non è più collettiva e produttiva, come lo era prima di sedersi in salotto, orgogliosa della libertà sociale, e non è tory come ambisce, non realizza l’ordine dello spirito e la bellezza, non può, non sa. E finisce per amare la sconfitta, compiacendosi del ruolo di Tiresia inetto, cioè della sua inutilità – il male non ha bisogno d’indovini. Questo vale anche per i programmatori, il loro riformismo è sterile: le strade e i ponti nascono perché i lavoratori li fanno, quelli che sanno farli, uno dopo l’altro, per una loro intima necessità, intima alla strada e al ponte, senza chiedersi il piano generale dei ponti e la loro finalità ultima.
Contro la filosofia
Marx è stato grande in questo, che ne rideva. Ma, Croce ha ragione, “Marx non tanto capovolge la filosofia hegeliana quanto la filosofia in genere, ogni sorta di filosofia, e il filosofare soppianta con l’attività pratica”. Che, se si sta in pantofole, non è attiva né pratica. Patrizi e plebei si diceva a Roma dei primogeniti e i cadetti della stessa famiglia, i privilegiati e i non, ma tutti erano aristocratici, ne avevano lo spirito. Marx ne è parte, patrizio o plebeo che si voglia, non è invidioso, non cattivo: non è schiavo ma libero. La sua democrazia fa grande, universale, ciò che a Roma era circoscritto. Ma il resto della storia non è onorevole.
Dopo Marx più nulla, una voragine si è aperta che non si colma. “E sempre ancora v’inonda di missive\ nelle quali, sottolineato, scrive:\ “Signor Kästner, dova sta der Positive?” Erich Kästner non se lo chiede più, essendo morto, e comunque non ci sono novità a un secolo data, è sempre e solo Marx. Anche lo Stato delle multinazionali, dipoi globalizzazione, sanno di rieccolo: il previsto mercato mondiale, l’imperialismo puro. A opera del più forte di tutti i forti, gli Usa. In condominio con  l’ultimo paese marxista-leninista del mondo, e di gran lunga il più grande, la Cina, ma con diritto di signoraggio. Nel nome del mercato, di cui Marx fu secondo scopritore – dopo Francis Hutcheson, che “la maggiore felicità per il maggior numero” teorizzò, e i suoi discepoli Hume e Smith. Benché con alcuni paletti, pochi, nei punti sensibili. L’imperialismo di mercato è molto democratico, la Coca Cola si può bere del Congo. È pure bello, Hutcheson ha imposto l’estetica come disciplina, vanta anche questa primizia.
Fra le cose che Lucio Colletti aveva capito al momento dell’abiura, uscendo dall’ermeneutica dei funzionari del Partito, è che il “Capitale” ha un sottotitolo, “Critica dell’economia politica”. Lo ha sempre avuto, ma Lenin aveva detto che bisogna leggere “Critica dell’economia politica borghese”. No, Marx critica l’economia politica come scienza in sé borghese, cioè contabilistica. Molto rivoluzionario, ma è von Hayek, non palloso.
Il feticismo delle merci, l’alienazione nella vita e nel lavoro, questo lo eccitava – oggi lo avrebbe fatto impazzire: la condizione umana. È tutta qui la teoria del valore. Il plusvalore è la “realtà capovolta” rispetto agli elementi originari della produzione, la terra, il capitale, il lavoro, ma è realtà non disprezzabile, se non invenzione miracolosa. Quanto al popolo, non a Marx, è all’intellettuale che piace, creatura del romanticismo fumoso, che pensa di farsene guida – la volontà del popolo. Gramsci lo sapeva: “In Italia il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari”. Gentile o Pareto, l’Italia è “Machiavelli dopo Marx”, direbbe Noventa, liberale e socialista pentito.
“L’appello ai principi immateriali è il rifugio della filosofia pigra”, questo lo dice Kant visionario. Che però ammonisce: “Il materialismo, se ben si considera, uccide tutto”. Ma i comunisti sono con Marx finora le sole vittime del Diamat, al cui gioco vince il capitale, quintessenza della materia. Lo spiega Arthur Rosenberg, l’apostata: “La concezione materialistica della storia è l’applicazione della critica dialettica a tutti i fenomeni del vivere umano. Tutti i valori, in ogni campo, sono pesati e riscontrati troppo lievi. Ma il fatto di confutarli nei libri non basta a bandire dal mondo lo Stato e la legge borghese del salario. Gli oggetti dell’analisi non diventano chimere per il fatto di essere criticati: non viene abolita l’aria perché il chimico scopre gli elementi da cuii essa è costituita. La polizia dello Stato borghese e la cassaforte del capitalista sono amare realtà”.
Marx la storia passatista di Hegel ha rivoltato verso l’avvenire. Ma quale? Già a fine secolo il Margarethenhöhe, il quartiere operaio dei Krupp a Essen, che pure sono antipatici, era l’invidia dei ricchi di Roma. Nobilitare il popolo è quello che voleva Luigi XVI. Ma, si sa, direbbe Balzac, “tutti i montoni vorrebbero essere leoni”. E perché il notaio Balzac sarebbe reazionario, lui che, per esempio, sapeva che la ricchezza moderna si basa sulla miseria della campagna, della periferia del mondo – “il prezzo delle derrate di prima necessità fissa il prezzo del salario, e il prezzo del salario regge quello dei prodotti”: la ricchezza “riposa da cima a fondo sull’eccessiva sobrietà, sulla miseria, diciamo la parola, dei contadini”?
Crocefisso dal Diamat
Alcuni pensano, dice Lévi-Strauss, che il marxismo è una furbata in fo-ma di ragione per occidentalizzare il mondo. Non è vero. Ma è vero. “Marxismo o rivoluzione?” titolava Massimo Scaligero nel 1968 – un esoterista, ma non nelle nuvole. Lo diceva non per ridere, non per la “colonizzazione dialettica” che si faceva in Cina, né per il “conservatorismo di sinistra” di Togliatti. Rivoluzione è il cristianesimo, si sa, il messianesimo compiuto – gli ebrei se ne distinguono perché non credono in realtà al messia, non ne vorrebbero uno. Un messianesimo che parte da Treviri, la Terza Roma, invece che da Gerusalemme. La guerra che Cristo ha portato è il dovere del paradiso in terra. Più di Cristo Marx è vantone, vuole guerre, come se le avesse vinte in partenza, propone miracoli, e dà la certezza della salvezza. Anche se è più tollerante, un Cristo laico. Ma il Diamat lo ha crocefisso, e senza resurrezione, lo tiene lì in croce.
Il problema di Marx è, si sa, il marxismo-leninismo, di cui non ha colpa, l’ideologia. Contro la miseria di chi la vuole sovrastruttura – ma struttura e sovrastruttura sa di mobili e soprammobili, non ne sarà un calco? L’ideologia ha la forza dell’immaginario, Althusser ha ben vissuto anche se solo per dirlo. Dei facitori di parole, i demagoghi, i buoni scrittori anche, e Marx lo è in grado eccellente. La buona scrittura sarà onesta ma per interna coerenza, sul metro della sfuggente verità un po’ simula sempre. Marx, che fu capopartito, lo sapeva, una parola ben detta vale più d’ogni verità, e lo sapevano le sue vittime, che le storie del socialismo faticano a redimere: c’è una verità della fede indigesta a ogni logica.
Il Diamat confonde la realtà e la dialettica. Mentre una distinzione c’è. Marx distingueva proprio questo: le contraddizioni capitalistiche sono dialettiche ma non reali, meno che mai inevitabili, che stronzata. Non è più materia di contesa, lo ha riconosciuto da ultimo pure Colletti – “una filosofia che pretende uno status superiore a quello della scienza è una fi-losofia edificante, cioè una forma scarsamente mascherata di religione”. Mentre emerge il sospetto che al mercato si trovino più grano, più viaggi, più atomiche, più medicine, più minigonne, e più cura. “Meglio liberi che ricchi”, dice von Hayek, liberale Nobel tardivo, ipocrita forse precoce. Ma c’è di peggio: la libertà produce più ricchezza – e l’ingiustizia è più o meno uguale. Viene il sospetto che si è ricchi perché si è liberi. E vale perfino il contrario: più si produce ricchezza e più si è liberi, che si è liberi in quanto si è ricchi. La ricchezza certo non è tutto. Ma è niente?
(continua)

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