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martedì 12 dicembre 2017

Il fantasma di Carlo Marx – 2

astolfo

Rosa Luxemburg trovava il primo libro, “tanto apprezzato”, del “Capitale” “finemente lavorato, rococò, à la Hegel”. Marx avrebbe sottoscritto la critica. Non aveva orecchio e in traduzione viene meglio – con “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, la versione italiana invece di quella sorda originale, si sarebbe potuto dire che anche Marx cominciò con un endecasillabo, lo scattante pentametro giambico di Dante. Sarà stato un brillante filosofo a ventisette anni, poi per altri quaranta un giornalista e agitatore politico. Non era facile, il valore economico è recente, fino a Hobbes non c’era un’assiologia dei beni. E a Marx si è fermato: non c’è una teoria del valore successiva, del valore come lavoro – in italiano è perfino anagrammatica. I suoi critici capitalisti ne ricalcano i fondamentali. Ma la critica del capitalismo è reazionaria: i reazionari prima di Marx, e con più veemenza, criticano il capitalismo, il mercato dei soldi.
Contro lo Stato
Marx riderebbe del Diamat, una cosetta scientista, positivista, e del sistema moscovita della proprietà statale dei mezzi di produzione, o del partito unico, una forma come un’altra di dittatura. Curando nel 1970 la voce “Scienze Politiche 1” dell’Enciclopedia Feltrinelli, intitolata «Stato e politica», Negri ne escluse lo Stato: c’è Stato pianificato, sovietico, nazionale, di diritto, eccetera, ma non Stato. Non si saprebbe ovviare. Sono tanti i motivi per cui lo Stato manca, il principale è, Negri diceva, che è alienazione e distruzione: “Una realtà che l’uomo nuovo, prodotto dallo sviluppo capitalistico, che sa natura e storia non come nesso oscuro ma come sua propria realtà, costruita e sofferta nel lavoro, e nello sfruttamento che l’organizzazione del lavoro determina, sente come un’impostura da distruggere, distruggendo tutte le forme attraverso le quali lo Stato si fa dominio”. Toni Negri ha il merito di non dirci “figli di Marx e della Coca Cola” – a tanti  la Coca Cola non ci piace. Ma pure Kipling ha un’ode al lavoro, a quello che “ci annienta”, e alla fine si resta confusi: è dunque meglio lavorare che non lavorare? Il lavoratore crea, lo Stato distrugge, ma se ci siamo liberati non sappiamo che fare.
Marx non ne ha colpa, lui il suo lavoro l’aveva completato, chiedendo di abbattere lo Stato. La verità sul fondatore del comunismo è un’altra, che è inutile tacere. Che è stato il socialismo a indurre e generalizzare l’idea del possesso. Flaubert l’ha visto nel ’48, la rivoluzione della libertà, guardando le barricate da lontano, e l’ha dettagliato vent’anni dopo nella sua Educazione sentimentale che invece è politica. A un certo punto i socialisti si smarcarono dai liberali, che ne furono atterriti e si segregarono. “Allora”, dice Flaubert, “la Proprietà montò nei rispetti al livello della Religione e si confuse con dio. Gli attacchi che le si portavano parvero sacrilegio, quasi antropofagia.”
Ode al lavoro
Ma è vero pure il contrario: se la identità è definita dal possesso, non si può più negare che il socialismo è una forma completa di liberalismo, non limitato cioè alla borghesia. Non solo come formula politica, poiché al socialismo è essenziale la libertà, l’uguaglianza è la realizzazione della libertà. Ma proprio dal punto di vista economico, dei mezzi di produzione, il capitalismo producendo più ricchezza per il più gran numero, più opportunità quindi per il proletariato, e più tempo libero per tutti. Anche per scrivere o ricamare, il lavoro intendendosi occupazione onorata e dovere civico e non sfruttamento.
Per questo anche Marx resta vivo. O redivivo, se è Cristo – se era ebreo si è convertito. Per il dovere del paradiso in terra, per la giustizia. Fedele di Hegel, fu per questo condotto a mali passi dalla Riforma. Se Dio fosse nel processo di negazione e oltrepassamento, allora sarebbe un serial killer: una cosa è o non è. Lo vede ognuno che l’io protestante, o idealismo, è l’umiliazione dell’individuo, per quella rivolta contro l’oggetto che è invece il soggetto, una moltitudine di soggetti, mai riducibili a oggetti, anche perché lavorano insieme alacri per approfondirsi e moltiplicarsi, cosa di cui il Vaticano e la chiesa sempre sono stati al corrente. Mancò dunque l’occasione di mettersi col papa e sciogliere per sempre  il nodo della socialità - individuo, classe, Stato - ma può ancora recuperare.
Vittoriano, realista
Superato Marx lo è certamente, in quanto fu vittoriano. Sottolineava le parole, e le virgolettava, con la stessa enfasi della regina Vittoria. Mentre la nobile moglie Jenny prendeva gli appunti e copiava per lui. Comprò il piano per le figlie. S’innamorò di una ragazza Bismarck e altre principesse giovani. Sedeva nella sala di lettura del British Museum accanto ai Sobieski Stuart, che vi avevano un seggio di diritto, essendo stati dichiarati eredi della defunta dinastia - a Londra si celebravano all’epoca le dinastie, ogni sorta di dinastie. Fu membro all’università del Borussia, che diventerà il circolo dell’elmo chiodato. Capiva le ragioni dell’impero, e mai lavorò, facendosi mantenere dai compagni e da Engels. Un vit-toriano simpatico: non frustava le donne che s’immaginava di scopare.
Di Rosa vale ricordare che Lenin l’apostrofò a cose fatte: “Accade a volte alle aquile di scendere perfino più in basso delle galline, ma mai alle galline di salire al livello delle aquile”. Era un complimento, ma dopo una dura polemica. Ed era una condanna per gli altri, “tra i mucchi di sterco nel cortile di dietro del movimento operaio, le galline tipo Paul Levi, Scheidemann e Kautsky che scacazzano intorno alla grande comunista, ognuno fa quello che può”. I compagni possono essere i peggiori nemici. In Germania la chiamavano “Rosa la sanguinaria”, i compagni del Partito presto allineato, lei che viveva come una cinciallegra.
Di suo Marx era ed è realista, della borghesia sapendo che non può non rivoluzionare di continuo gli strumenti della produzione, e quindi i rapporti di produzione. E ha risolto l’incoerenza del pensiero liberale: il progresso va coordinato con l’esaltazione della storia di Hegel, il regno della libertà è nella società senza odio, classi, sfruttamento. Il liberalismo legando ai lumi. Superbo alfiere della ragione, tanto più in tempi di decadenza, benché non abbia letto Tocqueville, e neppure tutto Hegel, là dove anticipano Heidegger, “solo un Dio ci può salvare”. Se un rimprovero si può fargli è di non aver letto Belle van Zuylen quando rimbecca Diderot, che la religione voleva ridotta a sovrastruttura delle classi dominanti. Anche se le classi dominanti, si sa, più intelligenti in questo di Marx, di solito non trascurano la religione, che è l’esercizio più sublime dell’immaginazione. “Un Dio s’incontra nel reale”, dice bene Lacan.
(continua

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