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sabato 7 luglio 2018

Secondi pensieri - 352

zeulig

Decadenza È parola tedesca, ha cioè senso in tedesco. Quando Nietzsche la incontrò nel saggio di Bourget su Baudelaire la disse subito migliore del tedesco Verfall, e d’allora in poi la trovò in ogni piega del suo discorso. Non se ne parla per via di Hitler, della sua guerra all’“arte degenerata", o decadente. Ma c’era prima, e continua a prosperare.
Su Hitler non pesa il sospetto di decadenza, concordemente anzi si dice il suo un tentativo, sia pure orrido,  di reagire contro questo che a tutti gli effetti è un cancro della Germania, e dell’Occidente. Thomas Mann ne sa di più, nella sua estenuata ironia: conservatore e nazionalista, in casa autoritario, tutto fuoco dell’arte, vero fascista, che Hitler a ragione chiama fratello.

Entartung – La “degenerazione dell’arte”  era da quarant’anni prima di Hitler in due grossi volumi così titolati di Max Nordau, il fondatore del sionismo con Herzl. Che si basava su Lombroso. Ma con argomenti che Lukáks celebrerà ancora nel 1954, dopo Hitler e dopo Stalin, ne “La distruzione della ragione”. L’arte non può essere disarmonia, estetica della morte.

Esibizione – Non l’ultima delle passioni, benché fuori catalogo e probabilmente una decisiva, poiché alimenta grandi exploit, e perfino delitti. Motore peraltro della vita ordinaria, l’ambizione, la carriera, lo sviluppo, la ricchezza. Anche nelle manifestazione più bizzarre e si direbbe poco incisive. Anzi forse di più in queste.
Si scorrono le foto che illustrano il Royal Ascot, l’evento ippico che i reali d’Inghilterra patrocinano, e si resta strabiliati: dal numero delle persone che spendono cifre folli, compresa la partecipazione al’evento,  per esibire le code con il tubo gli uomini, e vestiti “romantici” Ottocento  le donne, con cappello fantasioso d’ordinanza. Non modelle (starlet) presenzialiste, o grandi famiglie aristocratiche tenute alla tradizione, e nemmeno grandi fortune, ma borghesi qualunque, non di nome, e quasi vicini di casa. Come a un carnevale, in maschera cioè, ma con la pretesa di essere il top del top del buongusto, della ricchezza e del potere. L’esibizione allo stato puro. Ma tale da dare tutto un altro contesto – e senso – alla Brexit, la separazione della Gran Bretagna dall’Unione Europea, o la persistente politica di potenza, la sfida alla Russia, da tre secoli a questa parte, l’autocelebrazione di un paese per il matrimonio di un principe reale con con un’attricetta americana  sua maggiore, divorziata.
È la manifestazione di una consistenza. Ma in quanto voler essere. Non necessariamente di sostanza.

Filosofia – Ma è dappertutto. Nei festival estivi non solo, e nei circuiti di conferenze. Insieme con l’ecologia e il vegetarianismo, il tema di più larga attenzione nel millennio. Non c’è dichiarazione o intervista, o diario di giovane bella ragazza, o auspicio di un futuro brillante e di successo, che non sia un temario filosofico, di male e bene, vita, morte, dolore, felicità, infinito. Non solo le influencer, i calciatori e le modelle: gli scrittori  di oggi, anche di un solo libro, anche teen-ager, sono solo dispensatori di pensiero. Non si pensa molto, non che si veda, ma tutti pensano.

Hegel – È in Italia che trova - non “compimento”, come usa dire ma non significa nulla - consacrazione, al limite dell’imposizione. Non ha fatto tanto Marx per Hegel quanto ha fatto l’idealismo napoletano, fino a Croce, e con Gentile. Anche perché Marx è stato a lungo marginale (e in filosofia si può dire sempre, con qualche eccezione, Althusser e pochi altri), mentre la filosofia italiana era, strano a dirsi, mainstream.
È di Gramsci, anni 1920, la notazione che con Croce Hegel raggiungeva proiezione “mondiale” (la filosofia di Croce classificando “momento mondiale della filosofia tedesca”). Dopo Spaventa e Labriola. Ma anche Gentile non fu da meno. Hegeliano anzi con più rigore, che la filosofia di Hegel portò al potere, come da non segreta ambizione.
Italiana anche la prima opposizione. Di De Sanctis, che tradusse Hegel quando era prigioniero a Castel dell’Ovo. E ne smontò le premesse, oppositore conseguente del dispotismo politico – borbonico nel caso suo, ma quelo napoleonico non sarebbe stato più accetto.

Io – Si è autodissolto, nell’eccesso – ogni minimo selfie erigendosi a Budda, il quale disse appena nato: “Sono il primo e il migliore, vengo a porre fine alla malattia e alla morte”. Tutto è io non è la ricetta migliore - il troppo non basta mai, è il solito scriversi sulla carta assorbente, parole dilatate. Bisogna pur parlare di se stessi, con se stessi. Meglio al modo del Nettuno dantesco che dentro l’acqua in cui vive, il suo liquido amniotico, vede l’ombra volteggiare in cielo di Argo, l’argonauta. L’egocentrismo lo impedisce. Anche se superficiale, per la moda o modo d’essere.

Misura – È sostanza, nelle decisioni umane come negli orientamenti – capacità di analisi, passione. È il metro – metronomo - della felicità, poca o molta che si manifesti o si aggiunga.
La misura è di ogni propensione umana, o passione. Dell’ozio come del desiderio, dell’immaginazione. Un evento o una volizione smisurata, il nazismo, il sovietismo, si concepisce (si ricostituisce storicamente) come un’eccezione e\o un malattia. 

Morte – C’è un’aritmetica della morte, un’altra economia politica. C’era nell’eugenetica, primi decenni del Novecento, e poi nel programma hitleriano, che in quel filone si inseriva, della “morte misericordiosa”. Ripreso dopo la guerra fino agli anni 1980 in Scandinavia, in Svezia e forse in Norvegia. C’è oggi nell’eutanasia, che è all’inizio una politica economica: quanto costa una vita senza speranza di remissione. A partire dal programma - non dichiarato ma attivo di fatto – della Germania Federale, che non opera chirurgicamente tumori sopra i 75 anni di vita.

La morte non è vita: la sopravvivenza ha più senso del suicidio, anche collettivo. Per esempio  quello che Hitler inflisse ai tedeschi. Non c’è un mito del genere.

Ozio – È tipica scelta volontaria: misurata, accorta. O altrimenti nocivo, malgrado i tanti elogi filosofici di cui si onora. L’ozio forzato, per esempio la pensione, come la prigione, cioè non scelto, non misurato, è oppressivo.

Storia – Finalizzata, come progresso, è invenzione-innovazione cristiana.
A un fine peraltro non storico: il progresso è all’aldilà, a un fine ultraterreno.
Con qualche problema. Se la storia è cristiana, non c’era prima, prima della redenzione, non c’era il progresso a un fine? Per non dire che questa storia sarebbe un percorso per l’aldilà. Una styoria di redenzione, e divina, senza pietà per la storia di qua.
Non c’è salvezza senza storia? E chi è senza storia, popoli e individui?

zeulig@antiit.eu

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