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martedì 3 luglio 2018

Letture - 350

letterautore


Castaneda – Il guru delle droghe di mezzo secolo fa, sulla traccia della scomparsa civiltà tolteca, oggi dimenticato ma che a lungo spopolò con i suoi libri di antropologia messicana, era peruviano. Personaggio di cui si fantasticò molto, che non voleva apparire, e fu anche ritenuto “inventato”, dai suoi editori, dopo il successo di vendite a sorpresa della sua prima ricerca. Un grosso volume, “Castaneda Papers”, s’ingegnò di smontarlo, riducendolo appunto a un solo libro, quello  delle prime ricerche sulle proprietà e gli usi delle sostanze allucinogene nel Sud del Messico, che poi i suoi editori avrebbero  replicato per il grande successo del primo. Ma l’uomo esisteva, e scriveva. Fellini lo ha incontrato, e ne parla a lungo in “Imago”, dopo avere tentato invano di ricavare dai suoi racconti un film. Lo ricorda con acredine, per le difficoltà che trovò in questa impresa, compreso un lungo viaggio tra Stati Uniti e Messico che fu una serie disavventure: “Si sono verificati fenomeni strani e prodigi piccoli e grandi”, ricorda: “Sono passati diversi anni dal 1986 e ancora non sono riuscito a farmi bene un’idea di cosa sia davvero accaduto. Forse Castaneda si era pentito di avermi fatto andare sin lì e aveva architettato tutta una serie di fenomeni che mi scoraggiassero”.
L’uomo però esisteva: “Io Castaneda l’ho conosciuto, era seduto là… E a Roma era venuto prima ancora che io lo conoscessi e volessi fare un film su di lui”. Presentato da una signora romana: “Avevo perso anni cercando di prendere contatto con l’editore e l’agente letterario, poi con lo stesso Castaneda”. A Roma avevano discusso su cosa Fellini voleva fare dei suoi racconti: “Quando Castaneda è venuto a trovarmi a Roma, in questo studio”, gli spiegò, sintetizza la sua intervistatrice, “che la matrice degli organi non si trova nel corpo fisico ma nella sua energia astrale, o corpo etereo, e che dunque, in qualche modo, pulsa a pochi centimetri dall’organo stesso”. Insegnandogli “alcuni esercizi per stimolare e guarire i diversi organi (fegato, cuore eccetera)”. Che Fellini provò, senza alcun effetto, di nessun genere.
Può darsi che quello di Fellini non fosse il vero “Castaneda”, ma un furbo profittatore? O che non fosse un antropologo ma un mago? Fellini per qualche tempo gli credette – fino al 1986, come dice. Quando abbandonò l’uomo e il progetto che aveva concepito sui suoi racconti. Irritato dagli “eventi misteriosi” a New York e in Messico che ritenne progettati e eseguiti da Castaneda o dai suoi affiliati o scherani. 

Incipit – “Robinson” lo celebra con Belpoliti: “La prima frase è quella che conta. Lì c’è racchiuso tutto, quello che sarà e quello che non sarà”. Illustrandolo con gli incipit dei cinque candidati finalisti al premio Strega. Che non dicono nulla.

Italiano - Un altro Gramsci ci vorrebbe, l’italiano è ora ostaggio, dopo Manzoni, dei siciliani, benché amabili, Verga, Pirandello, Tomasi, lo stesso Sciascia, retori del pathos, l’onore, la famiglia, i destini dolenti, che nell’isola stonano, altezzosa com’è, crudele, immaginifica. Senza, però, riemerge lo snobbino epidermico, entomologo da circolo Pickwick a Montreux, il retino in mano, per farfalle di cui non sa che farsene. Immemore e distratto.

Jünger  - Una “curiosità da entomologo”, la stessa di Jünger, di Nabokov, rivendica anche Fellini, per una poetica del tutto opposta a quella jüngeriana: estroversa, colorata, espressionista.

Manzoni - Stupefacente è come Manzoni riesca a infiacchire un catalogo spaventoso, di mafia, stupro, aborto, anche in convento, sciacalli nella peste, corruzione della giustizia e della religione, morte, idiozia, putredine, non c’è altro romanzo gotico, nero, che accumuli tanta turpitudine, tanto più per un’anima pia, che si assolve nella Provvidenza, e Dio pretende che lo ascolti e lo aiuti.  

Questo è indubbio, il Miglior Lombardo ha affossato l’italiano. Che da esperto propose dopo l’unità politica, poffarbacco, l’unità della lingua “in tutti gli ordini di popolo”. Con maestri toscani nelle scuole, viaggi delle scuole in Toscana, e in tutte le scuole un vocabolario del “fiorentino vivo”. Dopo aver “risciacquato in Arno” “Fermo e Lucia”, che già era scritto in toscano,  col “fiorentino vivo”. Ora, farsi fiorentini non è una colpa, specie se colti. Ma che ne era del resto dell’Italia, gli potevano obiettare Isaia Ascoli e ogni altro, giù fino a Croce?
Manzoni vedeva l’Italia come la Francia e l’impero romano, attorno a una corte e a una città, e questo, bene o male che sia, in Italia non avviene. Fu ottimo storico, ma non della lingua, che infettò d’insulsaggini, perdindirindina, senza colpo ferire, due piccioni prendendo a una fava, di conserva col ministro Brolio come il vino, ai glottologi dando la baia, che menavano il can per l’aia, di buzzo buono, tra il lusco e il brusco, fino a lasciarli con le pive nel sacco, se non che c’è un limite a tutto, e quel che viene di ruffa in raffa se ne va di buffa in baffa.

Semiologia – Dan Brown, dopo Laurent Binet, “La settiima funzione del linguaggio”, e dopo il suo stesso “Codice da Vinci”, ripropone in “Origin” lo scienziato pazzo, avveniristico e di potere, come semiologo. La semiologia è dunque la chiave per i milioni di copie, dopo il “Codice da Vinci” - o dopo Eco, “Il nome della rosa”.

Seneca – È Seneca che ha dato alla poesia inglese la chiave del suo fascino, attesta Praz, e li ha resi maestri del dialogo, “insegnando loro la brillante tecnica della sticomitia e delle battute brevi”. Ma non per sé: moralista, l’azione fa incidentale, le persone, le cose, la storia stessa, in un mondo senza libertà e senza avventura – prevedibile, alla Manzoni.

Vigna – Era povera al tempo di Jefferson, fine Ottocento, Il futuro presidente americano, il terzo, 1800, fa un periplo delle aree vinicole francesi, Champagne, Borgogna, Beaujolais, nella primavera del 1787, e ne resta desolato: “Quelli che coltivano la vite sono sempre poveri”.

Voce – Negletta, a favore della vista, ha molte proprietà anche taumaturgiche. Quella della “stanza accanto”, per esempio, in Vernon Lee. Theodor Fontane l’orgasmo estendeva alla voce. In “Cécile” fa intrattenere a un vecchio duca e all’infermo nipote una ragazza povera e di poche maniere perché parla e legge con appropriata inflessione di voce. L’ugola può dare acuto godimento. Nel  “Conte Petöfy”, altro romanzo di Fontane, un vecchio conte sposa un’attrice giovane per il piacere di ascoltarne la voce impostata e arguta.
Anche Stendhal godeva nell’orecchio, soprattutto ascoltando la signora Barilli cantare: “Voi che sapete\ che cos’è amore”, dal “Figaro” di Mozart. Era sua convinzione che nella musica “il piacere fisico, che proviamo attraverso il senso dell’udito, è più potente e vicino alla sua vera essenza che non il godimento d’ordine intellettuale”.

letterautore@antiit.eu

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