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martedì 18 febbraio 2020

La tratta africana degli schiavi

La tratta degli schiavi fu soprattutto, per numeri e durezza, fine ed effetto dei jihad, le guerre islamiche di conquista, del secolo VII a tutto l’Ottocento. Poi degli assetti sociopolitici interni all’Africa, fino a colonizzazione europea inoltrata, ai primi del Novecento. La tratta atlantica viene in terza posizione, per numeri e durata, per due secoli, Sei e Settecento. Una verità semplice, basata su numeri e documenti, e incontestabile. Non polemica: Lovejoy, un americano marxista che professa all’università di York, a Toronto, è soprattutto interessato a questioni di metodo. Certo, sorprendente.
La presentazione è cauta, solo documentata. Questo è il terzo rifacimento in quarant’anni, dopo le prime ricerche degli anni 1970, di quella che è riconosciuta la summa di storia della schiavitù in Africa, a partire dal jihad islamico. Una novità al suo apparire, nel 1983: la schiavitù analizzata in Africa, dopo le tante ricerche sulle Americhe. Rifatta nel 2000. E poi nel 2012, questa edizione. Una storia quindi in costruzione. A mano a mano che la storia dell’Africa a sud del Sahara - del Sudan (bilal-al-Sudan , paese dei neri in arabo), o Africa nera come usava dire - a lungo ritenuta un mondo senza storia, perché senza scrittura, viene emergendo, con l’archeologia e anche con i documenti.
Ma qualcosa è già accertato: c’erano un milione di schiavi africani negli Stati Uniti all’indipendenza, un po’ meno di un milione, ce n’erano altrettanti alla stessa data, un po’ di più, nel regno (califfato) del Sokoto, gli attuali emirati di Kano e Kaduna nel Nord della Nigeria. La differenza, spiega il curatore italiano, Pavanello, è che i ras e i mercanti africani non investivano nella schiavitù, non creavano valore aggiunto. Ma forse no: le piantagioni c’erano, di spezie, cotone, gomma, che la conquista coloniale nella seconda metà dell’Ottocento ha spazzato via, perché non competitive senza la schiavitù. E la conquista coloniale fu facile perché le istituzioni non c’erano, o non c’erano più – eccetto che in Etiopia, stato cristiano, non schiavista. 
L’Africa era schiavista, come e più delle Americhe: “La schiavitù in Africa e il relativo commercio degli esseri umani ebbero la loro maggiore espansione in almeno tre periodi, dal 1350 al 1600, dal 1600 al 1880, e dal 1800 al 1900”. Ma anche prima il commercio era florido. Violento, di conquista,  oppure volontario, per fame.
Lo schiavismo come lo conosciamo è un fatto dell’islam. “Per più di 700 anni prima del 1450 il mondo islamico praticamente costituì l’unica influenza esterna sull’economia dell’Africa”. I jihad fecero subito molti schiavi, europei soprattutto e russi delle steppe meridionali, con qualche africano. Poi, cessata l’espansione attraverso il Mediterraneo, il serbatoio del lavoro servile divenne l’Africa. Di schiavi da indirizzare verso il Nord Africa, il Crescente islamico - oggi Medio Oriente - e l’oceano Indiano. Nei primi cento anni, approssimativamente, dopo la loro discesa “lungo le coste della Mauritania, del Senegambia e dell’alta Guinea”, i portoghesi commerciarono anche gli schiavi, in concorrenza con mediatori islamici, ma per mercati prevalentemente islamici, in Nord Africa, oltre che per le piantagioni di canna da zucchero nelle isole atlantiche, Madeira, Canarie e Capo Verde.
Gli studi sono avanzati, specie negli Stati Uniti, sulla tratta degli schiavi dall’Africa verso le Americhe. Ma la tratta ci fu prima, e forse più importante, verso il Nord Africa e il mar Rosso: “Oltre 12,8 milioni di schiavi lasciarono le rive della costa atlantica dell’Africa; e molti di più furono avviati verso i paesi islamici del Nord Africa, Arabia e Indie orientali”. Diventando anche il mercato più florido, sebbene non produttivo, della stessa Africa.
La tratta fu al centro dell’economia e della società africane per lunghi secoli, è l’altra novità di questa ricerca. Che la documenta con lunghi capitoli. Con la tratta “si consolidò  all’interno del continente africano una struttura politica e sociale ampiamente fondata sulla schiavitù”: ne dipendevano il commercio estero, la produzione, e il potere politico. Anche dopo che altrove si proibiva: negli Stati Uniti fu limitata con leggi del 1791 e 1794, in Gran Bretagna, che ne era stata il maggiore trafficante, abolita nel 1807 (Lovejoy trascura l’abolizione in Francia, decisa dalla Convenzione nel 1794). Fino all’occupazione coloniale, nel secondo Ottocento. A Saint-Louis (Senegal) nel 1875 si censivano 648 schiavi, di cui 98 appartenevano ai francesi e 550 ai residenti africani. In Nigeria, “intorno agli ani sessanta e settanta” dell’Ottocento, “a Ibadan c’erano 104 famiglie che possedevano nel complesso oltre 50 mila schiavi, una media di 500 schiavi a famiglia” – erano “eserciti privati, braccianti nelle piantagioni, artigiani, guardiani di mandrie e greggi, facchini”. Negli anni 1850 nel golfo di Guinea molti schiavi erano padroni di schiavi.
Prima della “scoperta dell’Africa”, più o meno coeva della scoperta dell’America, il traffico di schiavi dal “Sudan” era verso il Nord Africa e al di là dl mar Rosso. “Prima del Seicento, la tratta dell’esportazione attraverso il deserto del Sahara, il mar Rosso e l’oceano Indiano si era mantenuta per secoli a un livello da 5.000 a 10.000 schiavi l’anno”. Tra metà ‘400 e fine ‘500 “circa 410 mila schiavi furono esportati dall’Africa attraverso l’oceano Atlantico”, inclusi quelli sbarcati nelle piantagioni di San Tomé e Capo Verde. Nello stesso periodo “il volume della tratta atlantica fu di circa un terzo della contemporanea tratta islamica attraverso il Sahara, il mar Rosso e l’oceano Indiano”. La documentazione è scarsa, ma “le cifre riportate, 4,82 milioni per la tratta sahariana  tra il 650 d.C e il 1600, e 2,4 milioni per quella del mar Rosso e dell’oceano Indiano tra l’800 d.C e il 1600, potrebbero in realtà essere addirittura raddoppiate”.  
Una ricerca curiosa. Legata, anche in questo terzo rifacimento, a questioni dottrinali in area marxista, di Terray contro Amin, Hirst e Althusser. Ma pratica, piena di dati. Più interessante è la prima parte, storico- statistica. La seconda, più lunga, è una presentazione-dibattito sulle condizioni socio-economiche nelle varie realtà (regni) in Africa, prima e sotto il colonialismo. Molte tabelle riepilogano significativamente i dati noti della tratta: anni o periodi, provenienze, destinazioni, maschi, femmine, bambini, prezzi medi. Aiutano un glossario dei termini locali, delle lingue africane, e una dettagliata cronologia. Restano invece vaghi, rendendo la lettura ardua o insignificante, i dati topografici dei numerosi regni (in Africa di breve durata) e tribù sui quali si articola il racconto.
Tra fine Cinquecento e tutto l’Ottocento le proporzioni fra i due versanti costieri dell’Africa si invertono: su un totale di 11,7 milioni di schiavi “trattati”, il 75 per cento è indirizzato verso l’Atlantico, 8,7 milioni di persone. I più, quattro su dieci, li trattano i mercanti di schiavi inglesi, il 34 per cento i portoghesi, il 17,5 i francesi, un 5 per cento gli olandesi – con un 1 per cento (67 mila) trattato dai danesi, mentre gli spagnoli non praticavano la tratta (se non per 11 mila schiavi in totale nei tre secoli, lo 0,2 per cento).
Ma nell’ultimo secolo del periodo considerato, l’Ottocento, quando sulla rotta atlantica si impose il proibizionismo, i jihad islamici rialimentarono la tratta: “Il XIX secolo fu un periodo di violenti sconvolgimenti nella savana settentrionale e in Etiopia. A partire dal 1804, dal Senegambia a ovest, al mar Rosso a est,una serie di jihad sconvolse la maggior parte di questa regione”, fattore centrale lo schiavismo. Attraverso il Sahara e il mar Rosso “1.650.000 individui furono esportati nel corso del secolo nel Nrdafrica e il Medio Oriente… Inoltre, i jihad comportarono la riduzione in schiavitù di milioni di altre persone”, al lavoro per i nuovi potentati.    
Tabelle circostanziate sono ricostruite anche sulle aree o i paesi di provenienza. A lungo la gran massa degli schiavi avviati alla tratta atlantica provenne dalla parte meridionale del golfo di Guinea, dalle coste dell’odierna Angola, via Luanda e Cabinda – insieme col samba. Nel secondo Ottocento, invece, quando in teoria la tratta degli schiavi era illegale, fu esercitata soprattutto in Africa orientale, attraverso Zanzibar e la costa kenyota di Mombasa. Vi si esercitarono da ultimo anche i regnanti cristiani dell’Etiopia – ma più vi si esercitarono le famiglie meridionali del regno, dei Galla, camiti, mezzo islamizzati.    
Per un lungo periodo alimenteranno la tratta gli Stati africani, nel tentativo di impadronirsi del lucroso commercio. In quattro modi: guerre e razzie, una sorta di “abigeato” umano fra stati confinanti, la “diffusa illegalità” interna, anche qui con rapimenti e razzie, la vendita dei carcerati, condannati o sospettati – “la schiavizzazione divenne la condanna più comunemente inflitta in luogo di ammende pubbliche, compensazioni materiali o pene capitali”. Già subito, dopo la “scoperta dell’Africa”, e poi di più dopo la scoperta dell’America, la tratta fu opera africana. A lungo in esclusiva. Molte tribù o regni si baseranno sulla tratta. A Nord del Golfo si distinguerà il regno del Dahomey. Subentrato dagli asante della Costa d’Oro (Ghana). E il delta del Niger, con i punti d’imbarco di Bony (ora petrolifero) e Calabar, sbocchi degli emirati di Kano e Kaduna, della Nigeria settentrionale. Il Nord del golfo verrà chiamato la Costa degli Schiavi.
Gli schiavi non furono la sola merce d’esportazione africana. “In certe regioni, come la valle del fiume Zambesi, l’Etiopia, l’Alto Nilo, la Costa d’Oro e il Senegambia, erano al secondo posto dopo l’oro”.  Ma furono la merce più ubiqua, a disposizione di tutti, a differenze di quella mineraria, e la più sfruttata, più intensamente e più a lungo. Si scambiavano nei primi secoli, fino a tutto il Seicento, prevalentemente contro conchiglie cauri, usate come monete, tessuti dall’India, i guiné, usati anch’essi prevalentemente come monete, e braccialetti manilla, intrecci di rame e ottone, anche questi usati come monete. Poi, dal primo Settecento, contro armi da fuoco. Che dai primi del Settecento divennero la “moneta” preferita, insieme ai tessuti stampati. 
Il colonialismo è stato paradossalmente la liberazione dell’Africa dalla schiavitù. Cauta, progressiva, per non inimicarsi i potentati locali, a volte ipocrita (i due Bonaparte la restaurarono sotto falso nome), ma le leggi andavano applicate, e i governatori inglesi e francesi si ingegnarono di farlo. “Nel XX secolo, funzionari coloniali e antropologi, spesso incaricati dai governi, scoprirono che la schiavitù era diffusa in quasi tutta l’Africa. Malgrado gli sforzi di descrivere quella schiavitù come qualcosa di diverso dalla schiavitù praticata nelle colonie europee, specialmente nelle Americhe, fu comunque chiaro a tutti che la schiavitù continuava a esistere, sia pure in forme diverse”. Soprattutto complessa fu l’applicazione delle leggi antischiavitù in ambiente islamico, negli ex califfati. Ma con vari accorgimenti – molti funzionari britannici si specializzarono nelle leggi islamiche – anche qui la schiavitù fu rapidamente ridotta e poi eliminata.

Cosa resta? Un deficit demografico e di competenze che ha handicappato il Sudan, il continente africano a sud del Sahara nel Novecento, nel grande balzo verso la ricchezza – malgrado le guerre, grazie alle guerre? Prima e dopo le indipendenze. Un handicap superato ora, sia in demografia che in formazione, da un eccesso in senso opposto, di una esplosione demografica - grazie anche anche alla sanità - e delle competenze. Ma senza infrastrutture e strutture in grado di assorbirle. “Storicamente”, è la sintesi in conclusione, “l’Africa ha vissuto un continuo drenaggio di popolazione”, verso l’esterno e al suo interno. Della popolazione in età produttiva, ridotta in schiavitù, in condizione servile, oppure uccisa al momento delle frequenti razzie.     
Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa, Bompiani, pp. 572 €  21



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