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venerdì 6 ottobre 2023

Secondi pensieri - 524

zeulig


Ipocrisia
– Può essere aggressiva, parte di un piano offensivo, ma è prevalentemente (anche nella casistica offensiva) una forma di autoprotezione: un linguaggio difensivo, una velatura di se stessi,  che oggi si chiama con eufemismo inadeguatezza. L’ipocrisia comincia da se stessi. Copertura di proprie mancanze, o vere e proprie colpe.
Colpe anche solo presunte. Ma volersi ipocriti presume comunque un grado elevato di coscienza: è un gioco complesso.
 
Libertà
– È (sopravvive se) fatta di limiti. Altrimenti è eversiva, e  sempre autodistruttiva – è nel senso comune, all’evidenza.
In questo senso ha ragione anche Sartre, per il quale “la Francia non è mai stata libera come sotto i nazisti”, sotto l’occupazione militare tedesca, per quattro lunghi anni. Che è una battuta, un voler “scandalizzare il benpensante”, anche sfidare il senso comune (è vero il dritto e anche il rovescio, in certo senso anche Hitler, perché no). Ma ha un senso: l’occupazione ha spronato la Francia a volersi libera, l’ha liberata mentalmente, ha posto la libertà al primo posto fra i bisogni, fra le convinzioni. In questo caso è una libertà illimitata, ma è una libertà contro, un momento dialetticamente negativo, “per” la libertà. 
 
Meritocrazia
– Se ne discute come criterio pedagogico e sociale. Sull’onda del dibattito avviato in America sul suo impatto politico da Daniel Markovits, “The Meritocracy Trap”, dal liberale, cultore di Hayek, Michael Sandel, “The Tiranny of Merit”, et al., sul merito come una forma di appiattimento culturale che ha portato alla incredibile polarizzazione economica, ora anche politica, della società americana del Millennio. Di cui si porta l’ideologia del merito come la causa, e non il “mercato”, la plutocrazia dominante - anche dello Stato e della sua articolazione finanziaria (che poi è il fisco, l’imposizione fiscale dei cittadini), come è avvenuto nella crisi delle banche del 2007-2008  fallimento colossale della meritocrazia. Il premio all’intelligenza e all’impegno come base per il successo si stratifica in piani infine inaccessibili, soprattutto perché non tollerano critica – si autocelebrano. Meritocrazia come fonte di ineguaglianza, compressione e sfinimento della classe media, impoverimento relativo delle masse – fino alla crescente ingovernabilità politica. Un criterio autofagico: il “mito fondante dell’America” ne mina la costituzione.
Le stesse conclusioni può obiettare oggi Luigino Bruni, l’economista-biblista che ha riproposto in edizione critica il seminale “Del merito e delle ricompense” di Melchiorre Gioia, al sociologo Luca Ricolfi, autore di uno studio controcorrente, “La rivoluzione del merito”. Rossi  ha sollevato il tema nel 2018, sulla scia del dibattito americano: “La meritocrazia sta diventando la nuova religione del nostro tempo, i cui dogmi sono la colpevolizzazione del povero e la lode per la diseguaglianza. La sua origine si perde infatti nella storia delle religioni e dei culti idolatrici…”.
Nel suo studio Ricolfi, della liberale Fondazione Hume, porta a sostegno della meritocrazia perfino la pedagogia di don Milani: se ben capito, non era  contrario a una scuola del merito. Rossi solleva il problema rovesciando la piramide - non guardando alla cima ma alla base – e in chiave parità dei diritti: “Il merito è una grande scorciatoia cognitiva, che gli uomini (maschi) hanno sempre amato per auto-giustificare e rafforzare le proprie posizioni di potere. Don Milani, esperto di Bibbia, lo sapeva bene. Il libro di Giobbe, Agostino contro Pelagio (tema caro a John Rawls), poi Lutero contro i teologi della Controriforma, hanno mostrato le insidie del merito, usato tropo spesso per condannare i poveri in quanto colpevoli della loro povertà”.
 
La parola meritocrazia, che si fa risalire alla democrazia di Atene, a torto, è termine e concetto del 1958, di un romanzo satirico, “The Rise of Meritocracy” (“L’avvento della meritocrazia”), benché opera di un sociologo, il britannico Michael Young, laburista di primo piano, fondatore della Open University, e dell’Istituto di Studi Comunitari. Lo stesso Young successivamente, nel 2001, spiegherà, non più in forma narrativa né satirica, che “è giusto affidare incarichi agli individui sulla base dei loro meriti, ma è l’opposto quando coloro che si ritengono avere meriti si rinchiudono in una nuova classe sociale senza spazio per altri”, per nuovi entranti.

Nichilismo – “Niente è la forza che rinnova il mondo” è un verso di Emily Dickinson – di due versi, per essere esatti, Dickinson faceva economia di parole. E Dickinson cosa è, che anch’essa ha (un po’)  rinnovato il mondo?
Niente è un punto di leva. Basso, in maniera che eventuali cadute, per errore, calcolo sbagliato, o semplice disguido avvenga sempre a testa in su, come un misirizzi. E un ancoraggio. Anche corroborante: se tutto è niente, io sono comunque una consolazione, tanto sapiente sono.   
 
Pazienza
-  Una virtù di grande genealogia di cui non si vede più traccia. Per non avere prezzo (valore) nella logica del mercato?
Il mercato si vuole decisionale, sempre continuativamente ripartito fra vincitori e perdenti. La pazienza è la virtù opposta, della dilazione. È, era, una delle virtù ancorate al tempo, a una dimensione evolutiva dell’esistenza – il mercato è “tutto subito”.  
 
Pessimismo
– “È vero o no che il cinico è così pessimista da uscire con l’ombrello anche se c’è il sole?”, Fruttero&Lucentini fanno chiedere a un personaggio del romanzo “Enigma in luogo di mare”. “Al contrario”, ribatte il personaggio, che posa a cinico: “IL cinico, posto che possieda un ombrello, per prima cosa s’abitua a farne a meno anche quando piove. Dopodiché lo butta via, liberandosi anche dal timore di perderlo”. Dov’è l’eccesso di pessimismo? “È solo il modo più ragionevole di affrontare le variazioni del tempo, e… i capricci della fortuna”.
 
Pudore – Altra virtù di cui più non si parla. Virtù tradizionale legata al corpo, e più specificamente alla sessualità. Che quindi si direbbe scomparsa nell’epoca del sesso liberato, e più nella forma pornografica, esibita. Mentre come modo di essere è invece diffusa oggi come riserbo, soprattutto tra giovani e adulti, ma anche tra i giovani. E specie nella sfera sessuale, sotto il “liberi tutti”. Di pari passo con l’esibizione o l’ammiccamento del corpo nudo: mini e collant push-up, il lolitismo, l’ombelico scoperto. Anche i tatuaggi: sono una forma di copertura della nudità, polverosa, sporca, giallastra, come una ecchimosi in tarda età.
 
Rassegnazione – È stata, è, si può dire in termini economici, il “capitale dei poveri”, di chi non ha, non sa, non può: la capacità di sopravvivere, anche con dignità. Una delle virtù scomparse con la contemporaneità – col Millennio: o vincitori immediati oppure abietti perdenti – rinunciatari, asociali. Va con la pazienza.
 
Volontà – “Se va via la volontà, sparisce anche la forza d avere volontà, ecco la vera logica della faccenda”, Fruttero&Lucentini fanno dire a un personaggio del romanzo “Enigma in luogo di mare” – “la perdita della volontà è appunto la malattia” (Lucentini, che poi ne rimarrà vittima, parla – fa parlare - da specialista della depressione). Esistere è anzitutto volere – le geremiadi dei “meglio non essere nati” sono un esercizio capzioso della volontà di esistere. Della volontà, senza la quale non c’è giudizio, non c’è giudizio possibile, e quindi non c’è esistenza, di fatto, non quella che si prolunga in raccolte di poesie, o in lunghe pagine di diario.

zeulig@antiit.eu

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