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lunedì 22 aprile 2024

La guerra la Germania l’ha persa a Roma

Impressioni di guerre di cui emerge qualche ricordo personale, a partire da quella ispano-americana di fine Ottocento, ma soprattutto della seconda guerra mondiale, vissuta, da americana, ebrea, tranquillamente nella Francia occupata, sfollata con Alice Toklas prima a Bilignin poi a Culoz, vicino la frontiera svizzera, nella Francia di Vichy, del governo messo su dai tedeschi. Di questa guerra, della sua seconda parte, una sorta di diario: Stein comincia a scrivere, in forma diaristica, nel giugno del 1943, e termina l’1 settembre 1944, quando gli americani arrivano a Culoz – quando Toklas inizia la ricopiatura in bella grafia, per la pubblicazione ai primi del 1945. Ma europea Stein si dice dall’inizio, essendo finita in Germania, da uno zio, ad appena otto mesi di vita – e poi, grandicella, a Vienna.
Un libro, apparentemente, di divagazioni. In tempi seri, di occorrenze serie. “Ora nel settembre 1943 comincio ad amare di nuovo i treni, per trent’anni non sono mai salita su un treno…”, e dopo una pagina e mezza di treni, “ora nel settembre 1943 fanno saltare i treni quando penetrano nelle gallerie”. Lo stile è questo, snobistico, eppure non divagante, anzi sempre in tema: l’occupazione, la collaborazione, la Resistenza, le rappresaglie, i bombardamenti, gli allarmi, il cibo da reperire - ma Stein e Toklas avevano le galline….
Una conversazione con se stessa, un flusso di coscienza vario, senza logica, se non dei tempi e dei luoghi, e della fluidità narrativa. Un filo conduttore prova a darcelo, ma è una profezia. Di Santa Odilia (Ottilia di Hohenburg), che nel VII secolo predisse la fine della Germania. Dopo una battaglia alla Montagna Sacra, che Gertrude e le sue amiche avevano individuato in Mosca, per una serie di tradizioni, ma ora lei, dopo l’8 settembre, propende sia Roma: perché a Roma già si combattono i tedeschi – Roma, e poi Firenze, hanno speciale valutazione (anche precisa storicamente, come in nessun altro libro di storia, non italiano, sulla fine della guerra, sul “principio della fine”, che è il filo rosso di questa lunga memoria).  
Più precisamente, cioè diffusamente, “autobiografia, diario, romanzo”, come lo dice Barbara Lanati nell’introduzione. Secondo “la lezione della migliore avanguardia”, misurarsi con “tutti i sentieri\generi che la letteratura aveva a disposizione incrociandone … le «direzioni»”. Dove “il narratore è esterno e nello stesso tempo interno alla storia”. Ma, di più degli altri scrittori di guerra,
 fa “parlare la guerra”, come nota Lanati, fa sì che “la guerra si racconti”. Parlando tanto di sé, alla Zavattini, ma anche per dire del mondo che la attornia: come scrive Lanati, “delle sue giornate fa scritture, delle sue conversazioni e riflessioni ad alta voce fa autobiografia e biografia, non solo di sé medesima ma di un intero villaggio”. Riflettendo variamente o fantasmagorizzando ma di cose che vede, persone che incontra, anche solo il cane amato con cui si fa compagnia, Basket e poi Basket Due.
Qui, in particolare, curiosamente riflette la public opinion, di chi capita, la vicina di casa, le aiuto domestiche, il figlio del lattaio, il contadino che incrocia nelle lunghe sfacchinate, anche di venti km., zaino in spalla, alla ricerca di cibo - invece dei suoi soliti interlocutori, letterati e artisti, da snob irredimibile. I “ragazzi francesi di venti e ventun anni” che vanno “in Germania, come deportati” si assomigliano nel ricordo ai “ragazzi del Middle West che partivano per le Filippine” nella guerra ispano-americana. Perché tutte le guerre sono uguali – questa, curiosamente, si differenzia non per le persecuzioni tedesche, di questo non c’è traccia, se non per il reclutamento dei giovani per il lavoro obbligatorio in Germania, ma per la “resa incondizionata”, la novità totale del diritto bellico, americana. 
In effetti si legge come se si fosse in guerra, seppure marginalmente, dal borgo remoto, seppure sulla line di Modane, per l’Italia – c’è molta Italia in questo vagabondare. La percezione dell’occupante tedesco invece dell’italiano dopo l’8 settembre è immediata, una delle prime impressioni: i giovani “se ne sono andati o se ne vanno. Alcuni riparano sulle montagne, altri cospirano, il figlio del nostro dentista, un ragazzo di diciotto anni, è stato preso recentemente perché li aiutava e forse sarà fucilato”. Tutto così, incidentalmente, di cose viste e udite. Come sbadatamente, e invece no – la scrittura che si vuole sciatta è sorvegliata. “E ora nel giugno 1943 è una gran prova vivere, accadono tante cose tristi, tanta gente è in prigione, tanti scappano”. Subentrano gli italiani, fino all’8 settembre, che sembra che non ci siano. Poi i tedeschi, subito insidiati dai “maquis”, dai giovani sulle montagne – i
maquis nati come resistenza al lavoro obbligatorio in Germania, alla corvèe imposta dai tedeschi senza riguardo per il regime fantoccio di Vichy, che loro stessi avevano creato. Curiosa la precisione con cui delinea la guerra civile che si avvia, sotto occupazione straniera, e come anticipando gli storici “revisionisti”: “Chiunque poteva essere un amico o un nemico”. Breve la cronaca della ritirata tedesca, ma già céliniana - del Céline della trilogia postbellica della guerra: senza benzina, su carri trascinati da muli, o su bici da donna, rubano, bruciano, uccidono, sempre professandosi buoni, amici, fratelli, qualche volta disertando, per calcolo, l’aviazione tedesca infine chiamando in azione, nella ritirata, a bombardare i villaggi che lasciano.
Solo un inciso, e perplesso, ma denso, sulla “persecuzione del popolo eletto”, che attribuisce alla “pubblicità”: “C’è sempre stata una gran passione per la pubblicità nel mondo la più grande passione per la pubblicità, e quelli che vi riescono meglio, che hanno l’istinto più sicuro in materia di pubblicità rivelano una grande tendenza a essere perseguitati, e si capisce, questa io penso che sia la vera base della persecuzione del popolo eletto e ora più che mai perché dato che la pubblicità è sempre più un processo cosciente coloro che hanno l’istinto più sicuro per la pubblicità sono quelli di cui gli altri che vorrebbero essere i padroni della pubblicità sono gelosi, io almeno la penso così e forse non mi sbaglio”. Con una chiusa condivisibile, acuta: “È molto interessante ma la fine del diciannovesimo secolo e il ventesimo secolo compresero al bellezza della pubblicità in se stessa come fine a se stessa e questo è molto interessante”.
Molte osservazioni infine, perplesse, sui liberatori americani: sono diversi da quelli della prima guerra, che Stein aveva frequentato, ora molto sicuri di sé, e la cosa non le è chiara – non le piace.  Ma più di tutto, per molte pagine, osserva i tedeschi. Di cui da ultimo dirà: “I tedeschi non sono coraggiosi”. Dopo averli registrati per vari aneddoti confusionari, sentimentali, vendicativi, un po’ ladri anche, e sempre paurosi, sempre armati, sempre in gruppo – uno dentro il negozio a comprare il pane e cinque di guardia all’ingresso. I francesi sono instabili – “amano la varietà, è questo che li rende simpatici a viverci insieme”.
Con la storia di Paul Genin, “un giovanotto”, “un setaiolo di Lione appassionato di letteratura”, che la tira fuori dai guai giudiziari a occupazione avvenuta, non potendosi incassare gli assegni in dollari, tratti su banche americane, e le presta lui il necessario, senza ricevuta. Una storia che le verrà utile dopo la guerra, quando non mancherà di venire sospettata in America di “pétainismo”, se non di collaborazionismo con i tedeschi, per essere rimasta indenne dalle persecuzioni, lei e la sua collezione, molto 1ricca, di arte moderna. E con gli italiani qua e là, sempre simpatici: “Partiti i tedeschi abbiano avuto gli italiani in casa: erano abbastanza socievoli e pazzerelloni e non lasciavano mai in pace la servetta” – dopo l’8 settembre fanno visite di congedo di casa in casa. I tedeschi, invece, ancora loro, temono le barzellette, per questo l’occupazione è difficile: i parigini amano “raccontare di così buffe”, e i tedeschi, non capendo, temono - “è proprio questo che preoccupa tanto i tedeschi, le barzellette sono qualcosa che li coglie sempre di sorpresa, sempre”. E osservazioni sparse: “in guerra si mangia molto miele”, l’Ottocento mancava di logica, la produttività dei contadini francesi è enorme, i re Giorgio che portano sfiga all’Inghilterra, Nathalie Barney in età, non più “l’amazzone”, o “l’incantatrice”, di rue Jacob, in sogno a Firenze, e gli Stati Uniti d’Europa, “impossibili”, dice il fornaio, che sa anche il perché (“i cibi e le bevande di ogni paese d’Europa sono troppo profondamente diversi”). La cittadinanza no, non cambia le cose, lo ius soli sì, in un paese bisogna esserci nati. “Ogni due o tre giorni leggo un lavoro di Shakespeare”, le fanno sentire il flusso del tempo - specie le guerre, “sembrano oggi”.
Un racconto corposo, benché contenuto dalla grafica minuta. Di aneddoti, cose viste e intese, considerazioni, ricordi, sempre intrecciati variamente. La prefazione di Barbara Lanati è probabilmente il miglior inquadramento, sintetico e centrato, della scrittrice “anomala” Stein, maestra di molta scrittura americana tra le due guerre, specie di chi risciacquava la scrittura in Francia, della “festa mobile” di Hemingway, con Sherwood Anderson, Fitzgerald naturalmente,  perfino Pound,  e altri minori.
Gertrude Stein, Guerre che ho visto
, Oscar, pp. 260, pp.vv.

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