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giovedì 14 febbraio 2008

Un Sessantotto togliattiano

Il Sessantotto, quando se ne potrà fare la storia, risulterà la prima vera democratizzazione italiana. Insufficiente (restano sempre umbertino-fasciste la polizia, la giustizia, il fisco, le poste)ma molto più ampia di quella riuscita alla Resistenza - che anzi, quando se ne potrà fare la storia, quando si potrà farla anche della Resistenza, ha del tutto fallito la democratizzazione: nel 1968 ancora si sparava sui lavoratori in sciopero. Si fatica perciò a riconoscere il Sessantotto in queste testimonianze, si capisce che il ricordo, dopo quarant’anni, sollevi feroci malumori: è una storia togliattiana che se ne fa, proprio ciò che il Sessantotto aborriva. Personaggi che sicuramente c’erano, Pancho Pardi (“par di…”), Staino, Dandini, Lerner, Ravera, ne danno in questo speciale di “Micromega” testimonianza o personale (generazionale) o ideologica, oggi più insulsa che mai. Mentre si sa, lo sanno tutti, che il Sessantotto sta per anni Sessanta, quella tremenda spinta al cambiamento che in Italia per la prima volta incrinò lo Stato autoritario che si nasconde dietro lo Stato etico: “sbloccò” uomini e donne, diede la parola a ognuno, riconciliò con la natura e il vecchio paese, con le radici, e rivoluzionò il diritto di famiglia, il diritto del lavoro, la condizione della donna, i rapporti umani, l’abbigliamento, il gusto, le vacanze. E se non disarmò la polizia in servizio di ordine pubblico, tuttavia le impedì di uccidere. Negli anni di Moro, non bisogna lludersi, e del piano Solo, poi delle bombe, molto peggiori quindi degli attuali, e tuttavia pieni di energia. Sessantotto sta per gli anni in cui tutto sembrava possibile, anche costruire la libertà – senza droghe. Praga, Valle Giulia, il Maggio ne sono epitome, e in certo senso il culmine, come la conquista della Luna, anche se non fu figurata.
Confuso, e condannato, con l’Autonomia, il Sessantotto ne è invece l’opposto. È fantasia, intelligenza, saperi, libertà, tanto quanto l’altra è torva, stupida, e contenta di esserlo (le ope legis, tutti uguali per decreto ministeriale), violenta. Il “pentimento” ne è la raccapricciante prova: il Sessantotto non ha nulla di cui “pentirsi”, da denunciare, da confessare. Una rivoluzione per certo. Anche per la prova del nove inoppugnabile: la mediocrità di chi se ne proclama autore, che la memorialistica documenta in modo tragico – la rivoluzione, si sa, quando si dichiara già c’è stata. La presunzione di appropriarselo è ridicola al punto di fare propria la critica di carrierismo che sempre insegue il Sessantotto. Mentre nessun leader politico ne è potuto emergere, e i pochi che si sono fatti un nome lo devono alla violenza (Rinaldi) o al democristianesimo di complemento (Lerner, Liguori, Annunziata, Riotta).
Il Sessantotto propriamente detto è il Movimento studentesco, e in quanto tale ha perso. L’università è, con la giustizia, l’istituzione meno democratizzata d’Italia, senza avere le garanzie, le risorse, il potere contrattuale (di ricatto) della giustizia. Dopo le ope legis è tornata alla sua vecchia struttura umbertino-fascista, semmai peggiorata. Ma il Sessantotto è anche un profondo mutamento, dai capelli fino alle autoriduzioni e perfino agli espropri proletari, una gigantesca presa di coscienza della società, del suo modo di essere e del modo di essere di ognuno in essa, dei diritti se non dei doveri, che è sicuramente democratica. E per l’Italia una scossa quale non se ne trovano in tutta la sua storia precedente.
Il Sessantotto ha rivoltato la cultura dell’Italia. La società, se non la psicologia. Ma anche, parzialmente, questa. Ed è il suo lato deteriore, collegandosi la psicologia ai comportamenti: generazionalmente, quelli del Sessantotto sono dei sopraffattori, per la troppa energia liberata. La gerontocrazia che in questo secolo si prende ancora tutto, le vite dei figli bamboccioni, e le pensioni, presenti e future, la vita di lavoro prolungandosi con diritto di cumulo. La società che ha liberato, il Sessantotto ha poi contribuito a distruggere, goloso di tutto, fissandosi nella possessività che per un periodo l’ha distinto, le famose okkupazioni, specie nelle professioni formative, la scuola, dall’asilo all’università, il sindacato, la magistratura. Ognuna di questa funzioni la generazione ha affossato con l’etica dei diritti o dell’irresponsabilità, tutte in modo grave. Il sindacato ha minato la grande azienda e i servizi, specie la sanità pubblica e la previdenza. La scuola non dà più nemmeno l’alfabetizzazione primaria. La magistratura ha amplificato il vizio dell’autoritarismo: è l’unica istituzione ancora corporativa, fascista nei riti e nella prepotenza.
“Micromega”, Sessantotto: mito e realtà, supplemento a “Micromega” 1\08, i due fascicoli € 14

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