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mercoledì 6 agosto 2008

Quanta bella storia in America

Una raccolta di recensioni che finisce per essere, per la ricchezza delle argomentazioni, per la padronanza dei molteplici metodi, una rappresentazione dell’arte storica. La raccolta si apre con cifre fosche sugli studi di storia negli Usa. Nei quindici anni dopo il 1970 i diplomi di storia si sono ridotti di due terzi, da 44.663 a 16.413. Ma testimonia nella ricerca e anche nell’editoria (Wood raccoglie qui le venti recensioni pubblicate sulla “New York Review of Books” dal 1981 al 2007) un’eccezionale effervescenza tra le scienze umanistiche.
Il 1970 dev’essere stato un anno infausto. Wood ricorda che veniva dopo la pubblicazione, nel 1969, della “Death of the Past”, la morte del passato, di J.H.Plumb, maestro di molti storici, sotto i colpi della storia analitica o critica. “La vera storia è distruttiva”, argomentava Plumb: distrugge le menzogne e i miti di cui la memoria si compiace. Questo “Senso del passato” finisce per esserne il rovescio.
Molte pubblicazioni recensite sono su temi di storia americana. Ma pur con questo limite, per un non americano non americanista, l’interesse è generale nelle recensioni di Wood poiché ogni argomento è rivisto dal punto di vista metodologico. La raccolta finisce per essere una reportage incredibilmente vivido della “scienza” della storia di questo dopoguerra, anche negli Stati Uniti. Dove peraltro gli studi di storia all’università sono in netta ripresa: le scienze storiche e sociali venivano al secondo posto per numero di diplomati nel 2005, con 157 mila su un milione 439 mila, il dodici per cento. Nel 2006 i diplomi in storia erano 33.153, i master 2.992, i dottorati 852, più di quelli in economia, e in sociologia, poco sotto quelli in scienze politiche e amministrative. L’eclisse è stata di breve durata. Dal 1996 al 2001 i diplomi si erano ridotti del 3,5 per cento, i master del 18,4. Ma con un incremento sostanzioso, il 15,7 per cento, dei dottorati. Segno che la storia è più coltivata come disciplina scientifica, molti più ricercatori vi si dedicano. Nel quinquennio successivo anche i diplomi e i master hanno avuto un balzo, del 32 e del 26,5 per cento.
I giudizi di Wood sono precisi pro e contro. Di più contro: il nientismo postmoderno, l’atteggiamento scettico o decostruttivo postnietzscheano. Wood registra la storia lunga delle Annales, zavorrata di epidemiologie, serie storiche, continuità. La microstoria che gli italiani hanno inventato in reazione. La storia fiction, romanzata. Specie in tv, la faction (fatto e fiction) e il docudrama sugli eventi e i personaggi storici: “La confusione di fatto e finzione è parte del clima intellettuale del nostro tempo postmoderno, dominato com’è da venti di scetticismo epistemologico e negazioni nietzscheane della possibilità dell’oggettività che dilagano in ogni disciplina umanistica, talvolta con ciclonica ferocia”. E poi il genere, l’etno-antropologia, la storia sociale o critica, la storia culturale, a partire da Gramsci (perché non dallo stesso Marx?). Leggendo Wood si vedeva chiaro vent’anni fa che il decostruzionismo, che si propone di disarticolare l’ipocrita potere, elabora un linguaggio criptico.
Gordon S.Wood, The Purpose of the Past, Penguin, pp. 323, $ 25.95

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