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domenica 25 luglio 2010

Letture - 36

letterautore

Dialogo – Non fissa la memoria. Nei processi, anche negli interrogatori, non c’è effettivamente dialogo, una verità che s’innesti cioè sulla contestazione, ma un rimestare di pietre d’inciampo. È un gioco sonoro degli scacchi.
Alla Margaret Millar sostituisce tutto, anche l’azione. Evita descrizioni e antefatti – i riferimenti. Esime dagli aggettivi e dagli avverbi. È evidente, e fortemente espressivo. Ma quanto a lungo, e quanto complessa, può incollare una vicenda?

Giallo – Deriva da Kant, dalle esperienze e dalle categorie: gli eventi intenzionali sono soggettivi e non arbitrari. Il romanzo-narrazione, dapprima divagante, diventa concatenato. Le categorie principali, tempo, spazio, causalità, definiscono gli eventi e li esauriscono.

L’enigma ci vuole, con un delitto e un inquisito. Ma già la novella recava, alla fine, una novità, quindi non è la sorpresa l’essenza del giallo – lo è semmai di ogni narrazione. “Credo che uno scrittore serio descriva l’azione solo per svelare un mistero”, nella parole di Flannery O’Connor – “Naturalmente, può essere che lo riveli a se stesso, oltre che al suo pubblico. E può essere che non riesca a rivelarlo nemmeno a se stesso, ma credo che non possa fare a meno di sentirne la presenza”.

Nasce il giallo e si sviluppa come letteratura surrogatoria della giustizia? È possibile, è così nella storia: il giallo si sviluppa – è così ultimamente in Francia e in Italia – quando una questione giustizia insorge. Non a supporto ma in opposizione, come antitesi e surrogato. Dove la giustizia perde rilevanza, in Inghilterra prima e poi negli Usa, evolve verso il noir.

L’indiretto libero è tutto giallo, lasciando all’autore un ruolo da Grande Inquisitore – il detective è un Grande Inquisitore alla mano.

Joyce – Per un cattolico, per un italiano – un latino – è tutto scontato, quel “pentimento di coscienza”. Sappiamo come prendere (ammorbidire) i “sensi di colpa”, è nel nostro patrimonio genetico. Il dottor Freud nella cattolicissima Austria prosperò proponendo trasgressioni: si voleva poter godere, come lui stesso, dei sensi di colpa, trasgressioni facili facili.

Kafka – Rappresenta i démoni dell’ordinario urbano, ripetuto, irriflesso – il démone travet. Con un linguaggio realistico e metafisico – effetto della ripetizione? Del dettaglio? – alla “Mille e una notte”. Un’indeterminatezza determinante, un profondismo di superficie.
È l’Oriente? È vero che Kafka ha il fascino dell’esotico.

Il suo segreto è la forma, la sua repellente attrattiva. Di cui non c’è mai abbastanza nei regimi formali, burocratici. La procedura essendo tutto, è un universo conchiuso in sé. Difficile romperne il fascino in un regime formale (procedurale), poiché tutto vi concorre, compreso l’apparato repressivo, quello giudicante, e infine il mercato o opinione, cioè la stessa scrittura.

Lettura – È aristocratica. L’aristocrazia si materializza come esercizio individuale, perfino eccentrico, a un fine ideale. Da qui il suo fascino, anche in tempi e in classi non intellettuali.

Montesquieu – Ha il credito del non essere letto. Non è niente di più di quello delle “Lettere persiane”, irridente. Se non che la superficialità avvelena l’ironia. Costeggia la storia del mondo, secondo il modello di cui Hegel segnerà, coi suoi eccessi, la fine, contentandosi di generalizzazioni lievi che purtroppo non sono senza effetti. Come un qualsiasi avvocato in panciolle (in vestaglia?) che giudica e manda affacciato al terrazzo di casa. I poteri, i climi, il Nord e il Sud, l’Oriente e l’Occidente: tanti luoghi comuni ha piantato, benché solidi, lunghi due secoli.

Pinocchio – È il romanzo del padre. Dell’assenza del padre.

Verga – La maniera occasionale come arrivò ai grandi racconti “veristi” – a un certo epos del Sud, primitivo, naturale e mitico (mitico perché “naturale”) – dice la creazione letteraria in buona misura casuale, qui dettata dal mercato. Lo stesso è per la formazione del linguaggio: si deve a Verga l’italianizzazione del dialetto, con effetto drammatico nei suoi racconti, mentre è un vezzo della borghesie delle professioni, come si vede in Camilleri.
Verga lasciò giovane Catania per poter diventare grande scrittore, riconosciuto cioè. Al fratello, e all’amico Capuana, sempre consigliò questo primo passo. Andò a Firenze, la capitale d’Italia, dove pubblicò opere che gli diedero fama ma non lo soddisfacevano. Quando la capitale fu trasferita a Roma, Verga si trasferì a Milano, capitale dell’editoria. E qui scoprì presto “la potente carica simbolica che la Sicilia rurale aveva per la borghesia italiana”, che riscrisse sulla base della “fosca, antipittoresca visione” che ricavò da “La Sicilia nel 1876” di Franchetti e Sonnino ( v. “La poetica geografica di Giovanni Verga” di Nelson Moe, un capitolo esemplare dell’italianistica, ora ultimo capitolo di “Un paradiso abitato da diavoli” dello stesso autore). Sono tre anni feraci-feroci per il “Sud” nella storia d’Italia. Nel 1873 Verga è ancora a “Eva”. Al sapido romanzetto di costumi o alla francese, il genere “Signora delle camelie”, già insistentemente tentata con “Una peccatrice”, “Eros”, “La lupa”. Il genere tra verismo alla Capuana e scapigliatura che esaurisce la letteratura della seconda o terza Italia, insomma i decenni 1870 e 1880, monotematico: storie di trappole sempre all’integrità di una donna, nell’attesa di portarla a letto (Chelli scrive “Fabia”, Capuana “Giacinta, Tarchetti “Fosca” e “Paolina”, Verga “Narcisa” (meglio nota come “La fuggitiva), Faldella “Tota Nerina”, De Marci “Arabella” - mentre in Europa si scrivevano “Madame Bovary”, “Effi Briest”, “Anna Karenina”.
L’anno dopo il personaggio femminile è siciliano, “Nedda”, il cui bambino muore di fame tra le braccia della madre malnutrita. Il successo è folgorante, di pubblico e di critica, di Torelli-Viollier, ancora all’ “Illustrazione Italiana”, Emilio Treves, Ferdinando Martini, la contessa Maffei, Angelo De Gubernatis. E nasce il “Sud”. Verga, che aveva già scritto in chiave idilliaca di Acitrezza (lo stesso “Nedda” è sottotitolato “Bozzetto siciliano”), richiesto dall’editore Treves di “qualcosa di pittoresco”, ne fa ora il mare “livido”, benché “levigato e lucente”, “abisso nero e impenetrabile”, l’ombra del castello “malinconica”, le persone vinte. Prima viene “Padron ‘Ntoni”, con l’uso espressionistico del dialetto italianizzato. “Rosso Malpelo” e “I malavoglia” maturano nel 1877-78 con Franchetti e Sonnino, cui Verga invia “Padron ‘Ntoni”, e con la scelta monarchico-crispina. Verga fissò così il "Sud" – incontrando quasi un secolo di “preparazione”, tra il pittoresco e l’abominio. Tracciando la strada a Alvaro e ai facili epigoni neorealisti, specie napoletani. La Sicilia come metafora trasponendosi per il lettore, e per l’editore, in un quadro mesto, irrimediabile, della Sicilia stessa. Che al meglio può essere un destino senza colpa, il destino dei vinti, ma normalmente è vittima di se stessa – non senza verità, Verga incluso.
Con “Jeli il pastore”, “Cavalleria rusticana” e “La Lupa” un altro pittoresco s’imporrà, folkloristico, una sorta di bozzetto del bozzetto (il folklore come scienza era allora passione siciliana) – in “Cavalleria rusticana” trionfa il fico d’india. Ma si deve a Verga l’unico epos letterario generato (maturato) nell’Italia unita – sul cui solco si muove Pirandello, in grande parte, e Sciascia, in buona parte. Che sembra affermazione temeraria ma non c’è altro, l’Italia ha inventato solo il “Sud”. A costo terribile per il Sud.

letterautore@antiit.eu

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