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domenica 8 agosto 2010

L’universo modesto di Jünger, narratore politico

Si ripubblica una serie di colloqui di Jünger in occasione del suo novantesimo compleanno, già pubblicati nello stesso anno 1986. Libro modesto, forse compiaciuto, in rapporto ai convolvoli cui il lettore di Jünger è avvezzo. Ma ne sottolinea molte della costanti. Con i noti limiti. Che in parte sono un pregio: l’universo di Jünger, ciò che crede, ciò che pensa, si mostra semplice. E forse è in questa semplicità la sua “profondità”, la capacità che lascia intuire di costeggiare il senso intimo delle cose, e i fenomeni del tempo, la “mobilitazione totale”, il “lavoratore” (la tecnica), la resistenza attiva.
Jünger è un’altra specie di Germania decente. Non quella ammirata degli sgobboni della verità (archeologi, filologi, storici, costruttori di mondi), ma quella umbratile dell’essere e il non essere, o della condizione umana: conservatore ma anarca (spirito libero), nazionalista ma cosmopolita, militarista contro la violenza. Autore “politico” quant’altri mai, nella saggistica e nella narrativa, in tutta la narrativa, e tuttavia diffidente: quando un autore si scopre nella sua sostanza senza cercare di esercitare un’influenza con uno sforzo di volontà, questo può comportare conseguenze esiti più importanti che se si lanciasse in una argomentazione politica: non dà un impulso ma un esempio”.
Un capitolo è dedicato al nazismo, a Goebbels che Jünger ha frequentato, a come lo scrittore può sopravviverci. Un altro alle droghe e la trascendenza. I sogni sono parte importante dei “Diari” di Jünger: “Sono dell’opinione che la vita del sogno immerge a una più grande profondità che la nostra visione diurna del mondo”. Della nonna paterna in particolare, con la quale ha fatto per anni “sogni strani”, poi raccolti in “Nelle case dei morti”). I sogni si collegano a uno dei temi jüngeriani, il Regno delle Madri: la preminenza delle figura femminili (la madre, la nonna, la bisnonna), lo inquieta: “Evoca l’antica Gaia, che non è sempre molto rassicurante”. Si sa: “Il campo delle madri si dispiega su un vasto orizzonte, dalle Erinni alla Santa vergine – e sempre si ritrova il serpente”, l’animale “che ha perduto le sue membra”.
Con qualche novità. Uno dei primi ricordi di Jünger, se non il primo, di un fatto sarebbe stato l’affare Dreyfus. Di cui il padre farmacista, che a tavola ammaestrava la famiglia sulle sue letture, avrebbe trattato a lungo e in profondità. Interessante il dubbio se considerarsi un uomo dell’Ottocento, essendo nato nel 1895, per la potenza formativa dell’infanzia, oppure del Novecento, percorso in tutta la sua lunghezza (Jünger morirà nel 1998 a 102 anni). E la “fuga” che non è possibile, attestata da uno che a 18 anni fuggì nella Legione Straniera, e subito dopo ne volle fuggire, nella prima guerra mondiale restò ferito 14 volte, e poi se ne andò a Napoli a studiare la biologia marina. O le regioni, con la fine del nazionalismo. Le piccole patrie ritornano – che Jünger è felice di avere chiamato madrepatrie, Mutterländer, dato che il tedesco patriarcalizza la patria, Vaterland: “Le nazioni come si sono formate, dopo il 1789, dovranno ridimensionarsi poco a poco, le patrie. Al contrario le regioni, la Normandia, la Cher, Marsiglia, etc., ciò che io chiamo Mutterländer, prenderanno un’importanza crescemte. Il centralismo perderà su questo terreno e sarà riportato su insiemi enormi”. Il presupposto è che un impero è molto meglio (più fungibile, più democratico), di una nazione: “In un impero, ognuno può parlare la lingua che vuole, che sia il polacco o lo Yiddisch, la sua lingua materna. Mentre in uno Stato nazionale bisogna che tutti parlino la stessa lingua, etc.” “Il concetto di nazione quale è stato sviluppato dalla rivoluzione francese ha avuto conseguenze molto nefaste”.
I limiti sono l’orizzonte culturale molto tedesco, con incursioni al confine orientale, la Francia, e a quello orientale, la Russia. Tipica l’argomentazione dell’Arbeiter, che Jünger dice tradotto impropriamente con “lavoratore”, derivando il termine tedesco, il "suo" Arbeiter da arbeo, “una parola gotica «eredità»”, da “mettere in rapporto col greco orphanos e il latino orbus”, privo, orfano, e quindi connesso con la morte… Lavoratore viene invece dal latino tripalium una forma di tortura. Quindi Arbeiter, conclude, è intraducibile. Che è vero e non lo è. Lo è, forse, in francese, e in spagnolo. Senza considerare che il lavoro aliena, per antica recente condizione che Marx supinamente ha recepito. Travagliare viene da tripaliare, torturare col tripalium, strumento dal triplice cuneo. Connesso nel Settecento a sofferenza, spossatezza, umiliazione, nell’Ottocento a povertà, miseria, sfruttamento. Il lavoro a lungo è stato fatica: labor, ponos, da penia, travail appunto, e Arbeit. Che potrebbe anche essere la stessa cosa che Armut, la povertà. Ma era il linguaggio dei predoni, cavalieri e cacciatori, che passando alla fatica della terra se ne lamentavano.
O si prenda la corsa all'autenticità, anch’essa trademark molto tedesco - francese di rimbalzo: ambiguo, insignificante, perfino ridicolo – la corsa alla purezza, si sarebbe detto in altra epoca. Contro la tecnologia, il progresso, lo sviluppo, il terzomondismo, la globalizzazione incipiente (per magari farsi intronare compiaciuto honorable chief da quattro marpioni liberiani). Senza riflettere o dire che prima della “civiltà”, sia pure imposta con mano dura, coloniale, c'erano schiavismo, sfruttamento, esporcizia - inquinamento, dell'acqua, del suolo, perfino dell'aria con gli incendi, e virus e bacilli di ogni sorta e formato, imbattibili.
Julien Hervier, Entretiens avec Ernst Jünger, Gallimard, pp.162, € 10,50

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