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mercoledì 18 agosto 2010

Muoiono con Cossiga i segreti delle bombe

Con Cossiga è morta un’altra parte dei segreti della stagione delle bombe, della destabilizzazione dell’Italia. È l’aspetto più trascurato nei ricordi e le celebrazioni dell’ex presidente della Repubblica, e tuttavia è uno dei (pochi) fatti della sua vita: sempre Cossiga ha voluto “fare” la democrazia, la libertà, a suo modo. Della stagione delle bombe, un migliaio gli attentati e alcune centinaia i morti, il segreto, e la responsabilità, stanno in parti eguali con Rumor e il suo ministro dell’Interno Restivo (o forse col suo segretario Giuseppe Insalaco, “Peppuccio”, poi sindaco meteora di Palermo, per tre mesi, infine assassinato da ignoti), con Cossiga appunto, e con Andreotti, i due uomini politici più vicini ai servizi segreti politici - l'ex presidente anche come capo di strutture segrete.
Si può dire il primo terrorismo di Stato, secondo il noto titolo. Le bombe non sono scoppiate per caso. Richiedevano un’organizzazione, e hanno avuto una copertura, decisiva. Dai processi impossibili per piazza Fontana a quello di piazza della Loggia, che si trascina stancamente dopo trentasei anni, la strage che chiuse il ciclo. A meno di non includervi la strage di Bologna nel 1980, per la quale sono stati condannati due che non c’entrano. E il processo Sofri, forse, incluso. Le bombe sono state un fatto e non il solito ipotetico complotto. Lo Stato ci ha bombardato. Feltrinelli sarà pure morto per imperizia e non per uno scherzo, ma allora tanto più è da credere alle altre bombe, che sono state migliaia: chi da esperto le confezionava, chi le distribuiva, chi le collocava, chi le innescava. E chi decideva di farle confezionare, di che potenza, e quando e dove farle esplodere. Nonché chi e come riusciva a deviare le indagini, sempre, su piste che non portavano in nessun posto – le forme del contenuto, direbbe Umberto Eco.
Càpita di leggere in queste ore la raccolta che Zola fece dei suoi scritti sullo scandalo Dreyfus, “La verità in marcia”, tra essi il celebre “J’accuse..!”, per i quali fu condannato a un anno, e dovette scappare a Londra per evitare il carcere. Lo scandalo si cita per l’antisemitismo, passione certo ignota in Italia ottant’anni dopo. Ma lo scandalo che lo scrittore metteva sotto accusa e provava era l’impegno dello Stato francese nelle coperture, questo è il nucleo dell’affaire, magistratura compresa. Dello Stato Maggiore della difesa, con costanza per cinque anni malgrado gli avvicendamenti, di due presidenti della repubblica, di tre governi e tre ministri della Guerra. Mentre i giudici militari e civili sempre emettevano i verdetti richiesti dallo Stato. Sempre, a tutti gli stadi della vicenda, si mobilitavano giornali e folle contro lo scrittore, si producevano impunemente carte false, si montavano testimoni. E se andava male – il caso di un comandante Esterhazy veramente in contatto con la nemica Germania – i giudici in ogni caso condannavano Dreyfus e Zola. Da Valpreda e il tassista Rolandi in poi le coincidenze sono troppe per ripercorrerle qui. Dreyfus e Zola se la cavarono perché uno degli autori materiali delle false carte, il colonnello Henry, a un certo punto confessò – e si uccise. L’unica differenza con l’Italia delle bombe è che non abbiamo un pentito, sia pure non suicida.

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