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mercoledì 18 agosto 2010

La sicilianità stanca

È un libro di colore, senza freni. Bozzettismo puro. Nell’aneddotica e, di più, nel linguaggio. Salvatore S. Nigro lo vanta come il Grande Romanzo, accanto alla “Cronica” romana, al “Cunto di li Cunti”… Il dialetto è superusato, senza essere realista alla Berni né denotativo alla Gadda – è l’italiano dialettizzato dei galantuomini, con parole di puro vernacolo rispiegate, un dialetto piccolo borghese: tutti dicono banalità, proprio da un punto di vista dialettale, e le dicono con voluttà, acuendo l’effetto di vuoto. La sicilianità (similitudine?) è del resto tutta bozzettismo, e la letteratura isolana è volentieri sicula – Verga, Brancati e Sciascia stessi sono spesso bozzettisti - e “Il Gattopardo”?
Un pastiche alla fine, un po’ tirato. Molti richiami letterari, a D’Annunzio, a Manzoni, e a san Juan de la Cruz (che un tempo di traduceva molto) erotizzato. In una lingua secentesca inventata, non “vissuta” come quella di Gadda, che era uno col suo linguaggio, né burlesca, per antifrasi, ma è “creata”. Con vari registri, plebea all’inizio, poi pretenziosa, come il personaggio che si crede. Con spasso dell’autore, evidentemente, ma artificiosa - Camilleri dice che se l’è inventata, una lingua siciliana del Seicento, ma non si può.
Andrea Camilleri, Il re di Girgenti

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