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martedì 12 aprile 2011

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (86)

Giuseppe Leuzzi

Nord/Sud
C’è sempre un Nord più Nord: più prepotente, più razzista, violento anche, e menefreghista, in buona coscienza. È esilarante, benché triste, vedere il piccolo Maroni di fronte ai tronfi, pettoruti, sprezzanti tedeschi, olandesi, scandinavi, polacchi di Bruxelles che lo rimandano indietro con tutti i tunisini.
Sostenuti, è vero, da un napoletano di nome e di fatto: Napoli sempre si allea col Nord, ma con quello che più conta.

Marc Bloch ha reintegrato il suo plotone al fronte nel 1915 con territoriali bretoni, in età quindi, “combattenti assai mediocri”. L’insigne storico li dice “intorpiditi dalla miseria e l’alcol”, nonché “incapaci di capire e farsi capire” perché analfabeti. Non parlavano francese e neppure un dialetto comune: “Ognuno parlava un dialetto diverso”, e chi capiva un po’ di francese aveva difficoltà a farsi capire dagli altri”. Ma non li disprezza.

Gli inglesi hanno aiutato la resistenza locale ovunque durante le guerre napoleoniche. Con successo in Spagna. Le guerre napoleoniche cerarono un diffuso sentimento partigiano, cioè ribellistico, a fondo religioso, in Spagna e nel Tirolo, o nazionalistico in Russia, e contro la leva in massa in Calabria. L’odiosissima tassa sulla vita, introdotta al coperto della rivoluzione e della libertà. Non fu l’unici, ma la resistenza dei “massisti” in Calabria fu la più lunga, che poi si ripeterà col primo brigantaggio subito dopo l’unità, che anch’essa si presentò con la coscrizione. È questa resistenza, e non la libertà, il tema di uno dei primi canti della tradizione popolare italiana, nel 1808: “Partirò partirò, partir bisogna\ dove comanderà nostro sovrano;\ chi prenderà la strada di Bologna\ e chi anderà a Parigi e chi a Milano.\ Ahi, che partenza amara…”.

Il brigante può avere avuto un ruolo sociale – se ne sa molto poco. Ma, spiega C.Schmitt nella “Teoria del partigiano”, “nei periodi di disgregazione…il soldato irregolare finisce per confondersi con i grassatori e i vagabondi, fa la guerra per conto proprio”. Diventa “partigiano di se stesso”, come lo diventarono i briganti, qui scuramente, già nel 1863, che si erano specializzati nella cattura dei viaggiatori a scopo di estorsione-riscatto, come già i saraceni e i corsari. “Simili dissoluzioni sono segni dei tempi da non trascurare”, ammonisce però il giurista: l’unità cioè manifestò subito la sua debolezza, l’annessionismo non si può negare.
Diverso il caso nella resistenza spagnola a Napoleone, che Schmitt analizza in dettaglio: “”La guerriglia spagnola fu un insieme di circa duecento piccole guerriglie locali… ciascuna guidata da un capo diverso, il cui nome resta avvolto nella leggenda”. Come il brigantaggio? Sì e no: aveva infatti dalla sua la convinzione (il motivo politico), un “terzo interessato” (l’Inghilterra), e un territorio favorevole, unito.

L’esempio spagnolo è indubbio, il precedente è nei fatti, anche per i legami dinastici. Inoltre, in contemporanea con la Spagna, anche la Calabria aveva tentato di resistere all’Armée di Napoleone. Ma nel Sud Italia non si ebbe una guerra di popolo, come invece avvenne in Spagna.

Autobio - Il ritorno
Della storia greca qualcosa comincia a riemergere. Che è stata così lunga e anche recente, se il Barrio, “De antiquitate et situ Calabriae”, nel tardo Cinquecento ci classificava di parlata ancora grecanica, in chiesa e fuori, ma la voglia di moderno aveva cancellato. Dell’altra storia non si sa nulla, ma s’indovina. Tutto fa parte d’altronde di un ritorno, uno studio non è consentito e forse nemmeno gradito, solo le sensazioni, e i ricordi: il paese è una realtà distinta, a cui si ritorna, per periodi più o meno brevi, ma da visitatori, forestieri seppure non estranei. Per i quali il raffronto è soverchiante, non vivendo il giorno per giorno, le realtà in trasformazione, le trasformazioni stesse nel loro farsi.
Ma non c’è altra realtà che il come siamo in rapporto al com’eravamo. Come per un emigrato in terra lontana, o un carcerato di lungo periodo, che ritorni dopo molti anni, così è per l’intellettuale anche se sempre è tornato e torna spesso: c’è una radicalità nella scelta del distacco, più che nella lunga lontananza dopo un distacco non voluto. L’emigrato per scelta inevitabilmente assume il punto il vista del comparatista – il ritorno si fa in rapporto a una realtà “altra” dove si sono messe radici – e del giudice. Con la possibilità dell’errore, e il sospetto sempre dell’ingenerosità. Benché inevitabile, e talvolta utile.
Il ritorno a casa è ambivalente, secondo la psicanalisi. Felice e angosciante lo dice Lou Andreas Salomé in “Aprile. Memorie su Rilke”. Lou Salomé ricorda a Rilke come egli, tedesco, si sia “trovato” nella sua Russia, di lei. Ma anche lei concorda, non artificiosamente: “Sul suolo nativo, con le sue rocce, i suoi alberi, i suoi animali, rimane qualcosa di sacrosanto all’interno dell’umanità di ognuno”. Questo essere nelle radici e altrove di Lou Salomé è tanto più rilevante in quanto Rilke aveva “una forte antipatia nei confronti delle proprie origini austriache”. Mentre Lou, russa, si ricorda al poeta più spesso come “noi tedeschi”. Un po’ come Aldo Maria Morace, storico della letteratura, presenta due racconti di Alvaro “novecentista” sotto il titolo “Viaggi attraverso le cose”, spiegando che non c’è vita senza “passato e memoria”. Morace trova tema alvariano, “estetizzante”, il “trapianto impossibile in un’altra società”. Il racconto bello della plaquette, “Avventure”, che dava il titolo alla raccolta originaria, non più ristampata, del 1930, “Misteri e avventure”, era stato da Alvaro ripreso dalla raccolta “L’amata alla finestra” dell’anno precedente, dove figurava nel racconto eponimo, col sottotitolo “Il ponte”. È da rivedere se questa realtà-irrealtà non sia il proprio di Alvaro. Anche e specialmente in “Gente in Aspromonte”, che è tutto meno che realista – né neo realista in anticipo, non essendo un testo politico.
Il ritorno-rifiuto delle origini è uno dei problemi biografici acclarati di Corrado Alvaro, lo scrittore che deve la sua fama all’Aspromonte e a San Luca, il suo paese, dove però non è mai tornato dopo i vent’anni, se non rade volte, di notte, per poche ore. Più spesso invece se ne è alimentato, di un ritorno fantastico e mitico all’infanzia e al passato, alla montagna, al mare, agli elementi – colori, odori, sapori, luci, miti, leggende, persone, modi d’essere e di dire. Senza però un ritorno reale, anzi nella mancanza ricercata di contatti: la sintonia è con l’infanzia immaginata, il passato supposto, una natura peraltro sconosciuta, e in definitiva estranea. Compresa la famiglia, con la quale il legame è fattuale – beneducato - e non affettivo. Al funerale del padre Alvaro arrivò a esequie già fatte, e ripartì subito – di un padre che l’ha voluto “Alvaro”, fortissimamente: colto, scrittore, emigrato. Alvaro esemplifica la commistione di radicamento e sradicamento. È grande scrittore per il radicamento in San Luca, Polsi, l’Aspromonte, lo Jonio, ovunque nei suoi scritti, perfino nella tragedia “Medea”. Ma questo mondo propone avulso, un reperto senza contesto, e dai significati servili: trascuratezza, asocialità, violenza. Mentre più vivacemente è sradicato, a suo agio a Berlino, Parigi, Mosca, Istanbul, lo scrittore più cosmopolita del Novecento italiano.
Il ritorno a casa può essere fonte di vita. La superintellettuale Lou Salomé così lo ricorderà di sé e del sensitivo Rilke in morte di quest’ultimo, con il quale s’era accompagnata amante, lei di cinquant’anni, lui della metà, in un lungo viaggio di ritorno in Russia, la sua patria, aprendolo all’amore: “Molti anni dopo… mi dicevi talvolta del tuo sforzo per raggiungere, in qualunque cosa o circostanza, la dimensione mitica, mistica, cercata in modo simile ad un tentativo di anestesia, per far scivolare i dolori e le angosce. E pensavi a quei comuni accadimenti come fossero stati dei miracoli mancati, che pure avrebbero potuto essersi prodotti. Così assolutamente certi e tangibili si produssero per noi, per niente mistici, più reali anzi di ogni realtà, tanto che, anche quando volevamo allontanarcene, dovevamo poi sempre farvi ritorno come ad una casa”. La casa dell’amore ma anche la natura comune. Che Rilke, continua Lou, siglò con queste “felici parole”, una volta che sul Volga avevano rischiato d’imbarcarsi su due battelli diversi: “Anche navigando su due navi separate, avremo una medesima via a ricondurci indietro – perché comune è la sorgente”.
Ritrovare una persona per ritrovare un passato, dei personaggi, degli scorci, degli avvenimenti. Perché la tradizione è grande parte di noi stessi. Ed è un’occasione per avere interlocutori esclusivi personaggi illustri.
C’è comunque un “riconoscimento” in ogni ritorno. Personale e circostanziale, delle cose, dell’ambiente, delle persone, che più spesso negli anni sono nuove o sconosciute. Compresa l’estraneità che il paese sente verso chi è emigrato. Anche contro le intenzioni, che magari sono amichevoli: non c’è interscambio fra chi è andato via e chi rimane, se non limitato: sporadico, occasionale, di circostanza.

leuzzi@antiit.eu

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