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giovedì 8 settembre 2011

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (100)

Giuseppe Leuzzi

Mafia
Zdenek Zeman diceva al “Corriere della sera”, quando ancora poteva parlare, il 25 ottobre 2004: “La mafia è un problema di tutti, ma nel Meridione le hanno dato un nome, a Milano o a Torino ancora no”.

Salvemini, deputato socialista, poteva scrivere nel 1922: “Lo Stato Estero che interviene costantemente nel Mezzogiorno è l’Italia Settentrionale”. Siamo reduci da venti anni di governo incontrastato del Nord, anzi di Milano, e l’Italia è in mutande. Ma, fra le tantissime pagine che si dedicano alla crisi, questo ragionamento non viene neanche accennato, neanche per scherzo.

Il ripetitore di Cosoleto serve la telefonia mobile di una vasta zona sopra la piana di Gioia Tauro. Ogni due settimane, con regolarità, un gruppo di giovinastri lo mette fuori uso il venerdì sera, quindi fino al lunedì. Sono quattro, sono noti, anche se si mascherano, girano armati. Sono attivi indisturbati da ormai otto mesi, contro i piccoli proprietari, i piccolissimi commercianti, e contro la grande azienda dei telefoni, perché vogliono diventare i padroni del territorio. Mafia?
Altrettanto noiosi e faticosi risultano Windows e Norton, che bombardano il piccolo netbook a ogni riavvio di avvisi perentori e minacciosissimi, insistenti, di nessun senso se non indurre l’insicurezza – controllano il territorio? Di Windows si sa, si può capre anche, il monopolismo americano funziona così. Norton invece supera ogni immaginazione: scarica avvisi con le tecniche raffinate degli incubi, e intanto appesantisce, rallenta, imbizzarrisce la piccola macchina, prima così agile. Mafia?
Ma non tutto il mondo è paese. Perché non si prendono i quattro di Cosoleto? Per recuperarli, sono giovani. Ma non si recupererebbero meglio separandoli, magari in luoghi diversi, e obbligandoli a un’attività, o anche soltanto impedendo loro i sabotaggi e le minacce? Si farà fra trenta-quarant’anni, quando i quattro avranno distrutto molte attività, e molte famiglie, avendo costituito la solita “famiglia” della sociologia di caserma, con quattro o cinque “cosche”. I quattro saranno allora condannati al 41 bis, e i loro beni confiscati, eccetto quelli degli affiliati pentiti, compresi buon numero di loro parenti – c’è anche il business della giustizia. La mafia vuole potersi esprimere, prima di diventare antimafia. La mafia si alimenta anche così.

“Negli uffici della Procura di Palermo faccio quel che minchia voglio”, si vanta il giovane Ciancimino al telefono con i suoi amici ‘ndranghetisti. Ridendo della sua scorta e dei magistrati. Intercettato regolarmente. Ma arrestato dopo quattro mesi. Dopo molte paginate d’infamie sui giornali a beneficio della Procura di Palermo. Senza che il Csm, Vietti, Napolitano alzino un dito contro i procuratori di Palermo. Senza che i giornali ne diano conto, della dichiarata mafiosità di Ciancimino figlio – se ne legge solo in qualche foglio locale.

Nord
Il pregiudizio è utile al guadagno. Johann Heinrich Bartels, l’uomo politico amburghese che nel 1785-86 visitò a lungo l’Italia, spiega nelle sue “Lettere” come “mercanti tedeschi che nel Medio Evo trovarono il loro tornaconto ne grandi centri commerciali italiani, volendo tener lontani i loro connazionali, fecero delle descrizioni terrificanti del carattere degli abitanti e così diffusero un pregiudizio che ancora oggi persiste in tutta la sua violenza”. In particolare, ciò Bartels rilevava per quanto concerne Venezia.

Le origini del “Sud” il geografo danese Conrad Malte-Brun imputava nel 1809 al “pregiudizio napoletano”, presentando un estratto delle lettere di viaggio in Calabria e in Sicilia nel 1786 di Johann Heinrich Bartels. Malte-Brun ne parla in riferimento alle due regioni visitate dal senatore e poi borgomastro di Amburgo, tedesco, ma il pregiudizio naturalmente (facilmente) si rivoltò poi contro Napoli, e quindi tutto il Sud. Il pregiudizio è vero in particolare per i “briganti”, estensione campestre dei “lazzari” urbanizzati. I briganti sono una creazione di Napoli, nessuno dei viaggiatori ne è minacciato, né ne sente parlare in loco.
Bartels è più esplicito e perfino polemico. Il futuro senatore e borgomastro di Amburgo, politico preminente della città anseatica per mezzo secolo, fino a due anni prima della morte nel 1850.

Che cosa il “Sud” doveva - e dovrà - essere Bossi lo sapeva con precisione già nel 1992: quello che si appropria delle “risorse del Nord”, un “enorme flusso di denaro”, per destinarlo, “attraverso gli appalti”, a mafia,’ndrangheta e camorra – è “il 70 per cento dei loro introiti” (in “Elezioni. Istruzioni per l’uso”, interviste a cura di Giuseppe Leuzzi). Non c’è da meravigliarsi che la ‘ndrangheta sia diventata “un impero”.
Ma è vero, qualsiasi sottufficiale dei carabinieri lo sa, che il denaro pubblico al Sud è tutto corrotto e fonte di corruzione. Quello speso dallo Stato, e dagli enti, comunità montane comprese, dalle regioni, dalle province, dai comuni. Per la viabilità, le altre infrastrutture, la cultura (le bibliotechine comunali, le filodrammatiche, i “musei”, se ne fanno di ogni genere in ogni frazione, senza aprirli), gli sport.

Carlantonio Pilati, famoso giureconsulto trentino dell’impero austriaco, poteva ridicolizzare già nel 1775, nella lettera XVIII dei suoi “Voyages”, l’infausta teoria del clima dello “Spirito delle leggi” di Montesquieu. Quella per cui il Sud è povero per il troppo sole. Si vede che nell’impero romano pioveva sempre, argomenta Pilati. Sibari non è ma esistita, né Crotone, o Reggio, o Locri. E la Campania non produceva niente (importava già allora sottobanco dalla Cina?). È per questo che nessuno ricorda Pilati?
Le sue “Lettere dalla Calabria”, ora in “Per antichi sentieri”, hanno una pagina fulminante (73) sulle “cattive leggi delle nazioni del Nord” che hanno distrutto il Sud ferace, goti, lombardi, franchi, tedeschi, normanni, in aggiunta ai saraceni, “tutti popoli nemici dell’industria, e del lavoro”.

Fedecommesso
Il principe di Cariati, Savelli-Spinelli, vanta con Carlantonio Pilati a fine Settecento “un territorio che è più grande del principato di Trento” in Calabria e in Sicilia. Che gli rende ogni anno 50 mila ducati di Napoli, giusto per il titolo di proprietà. Poco, certo, poco meno del doppio rispetto alle 350 mila libbre di rendita del convento di Catanzaro, contando un ducato per 4 libbre e mezza – ma più ricco di tutti, “il più ricco signore di tutta l’Italia” è il duca di Monteleone (Vibo Valentia), che si segnala solo per essere “una branca della famiglia Pignatelli” - discendente, bisognerebbe aggiungere, del viceré di Carlo V a Palermo, che rendeva “impossibile” l'esercizio della giustizia, secondo denunciava pubblicamente il fiscale (questore) della vice-capitale. Un Grimaldi di Seminara, che si occupò delle sue terre, di farle coltivare meglio, è per questo negli annali.
La rendita del principe di Cariati, secondo le tabelle di conversione aggiornate del sito nazionenapulitana.org, valeva dieci anni fa un miliardo e mezzo abbondante di lire, 800 mila euro. Le 350 mila libbre dei monaci, pari a poco meno di 90 mila ducati, qualcosa come una tonnellata e mezza di argento, dovevano quindi valere un milione e mezzo di euro.
L’abate Galiani, scrivendo ad Antonio Cocchi nel 1753, ne delinea incidentalmente il fondamento, l’illegittimità del trono: “Un regno di tre milioni d’anime pieno d’opulenza e di spiriti meravigliosi… feudo d’un principe che l’ha sempre donato senza averlo mai conquistato e senza averlo mai potuto possedere” (in “Illuministi italiani. Tomo VI”, Ricciardi, p. 833).
L’economista Antonio Serra, nato a Celico, alla falde cosentine della Sila, nel 1550 circa, la cui memoria si conserva solo nell’elogio che ne fa Galiani, correttamente individuava la debolezza del Regno nel deflusso dei capitali a favore di affaristi forestieri. Non poteva dire che il re e i viceré si vendevano il Regno perché era in prigione, per aver partecipato alla famosa insurrezione antispagnola della Calabria di cui non si trova traccia, che veniva addebitata (principalmente) a Campanella. In carcere dal 1613, vi scrisse un “Breve trattato delle cause che possono far abbondare i regni d’oro e d’argento dove non sono miniere” – che dedicava al viceré, Pedro Fernandez de Castro y Andrade, conte di Lemos, in offa per la clemenza. Serra “inventava” la bilancia dei pagamenti, aggiungendo alle importazione ed esportazioni di beni materiali, nel calcolo del benessere del Regno, anche i servizi e i movimenti di capitale.
Un altro viaggiatore in Calabria a fine Settecento, l’uomo politico amburghese Bartels, mette in guardia i suoi corrispondenti: “Ricordatevi comunque che nei territori greci (bizantini, n.d.r.), diversamente dai territori longobardi, non si conosceva il feudalesimo”. E che la Calabria fu venduta, senza più, da Filippo II di Spagna ai suoi creditori. Che erano genovesi (Adorno, Grimaldi, Spinelli, Gagliardi, Perrone, Grillo, etc.) e questo fu una condanna per la Calabria. A metà Seicento, sui 2.700 centri rurali esistenti nel Regno di Napoli, oltre 1.200 erano infeudati a genovesi. Lo spiegava Rosario Villari nell’“Antologia della questione meridionale (Il Sud nella storia d’Italia)”, e lo confermava Corrado Vivanti, il curatore della Storia d'Italia Einaudi.
Testa genovese si disse a lungo in Europa, in un significato peculiare che Balzac così condensa nel racconto “Sarrasine”: “Un uomo sulla cui vita poggiano enormi capitali”. Un tipo di capitale legato alla persone del capitalista, con coinvolgimento familiare e genealogico ma non dinastico - legato a una corte, a un principato, a un feudo. Alla creazione o alla emulazione della corte, del principato, del feudo.

Bartels ha un ottimo excursus sulla manomorta nella Calabria Ulteriore, sull’eversione dei beni ecclesiastici del 1784, l’anno dopo il terremoto, e la costituzione della Cassa Sacra, la prima Cassa del Mezzogiorno. “Una massiccia operazione eversiva che non trova l’eguale nell’Europa dell’Ancien Régime”, spiegherà successivamente in nota, “sostenuta da un ampio fronte di interessi statali, nobilari, borghesi”. Ma non si andò oltre l’abolizione di uno dei pilastri del “mercato”, l’unico sociale, che in qualche modo teneva in vita i poveri, col sostentamento e con l’istruzione, o comunque la cura, dei bambini. Sarà questa la critica, settant’anni dopo, anche di Pasquale Villari nelle “Lettere Meridionali” del 1862, sugli effetti dell’unità d’Italia in funzione anticlericale.
“Mentre i soldi sono stati prestati a civili a interesse”, annota Bartels, “i beni immobili sono stati dati in affitto”. I propositi naturalmente erano buoni, spiega Teodoro Scamardi, che per Rubbettino ha curato la riedizione delle “Lettere sulla Calabria”: “ I beni incamerati dovevano essere venduti o dati in censo. Era vietato ai baroni di partecipare agli acquisti (ma non agli affitti), così come era fatto divieto di vendere i beni in blocco, al fine di ampliare il «ceto mezzano» con l’aumento del numero dei proprietari, recependo in ciò la lezione del Genovesi”.

leuzzi@antiit.eu

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