Cerca nel blog

sabato 4 febbraio 2012

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (116)

Giuseppe Leuzzi

S’incontrava a Reggio Calabria trent’anni fa un colonnello Morelli dei carabinieri che sapeva tutto delle mafie locali. Aveva raccolto in un volume gli alberi genealogici e gli organigrammi della famiglie mafiose, con le ramificazioni fuori paese, fuori regione, e fuori d’Italia. Una ricostruzione consentita, affermava, dagli scambi d’informazioni con le polizie dei paesi d’emigrazione, l’Australia soprattutto, e il Canada. Poiché in Italia le banche non collaboravano, “e nemmeno le Procure”. Gli esempi che il colonnello trasse dal suo riservatissimo lavoro si rivelarono successivamente fondati.
Morelli era stato nel 1978 capo di stato maggiore della Divisione Pastrengo a Milano. Di cui sarà comandante l’anno dopo il generale Dalla Chiesa. Preceduto nel 1973 dal generale Palumbo, famoso per aver brindato il 9 marzo di quell’anno con i suoi ufficiali allo stupro collettivo di Franca Rame.
A Milano Morelli aveva individuato nell’agosto 1978 il rifugio brigatista di Monte Nevoso, quello delle “carte di Moro”. Che Dalla Chiesa, capo dell’antiterrorismo, si riservò di assaltare il 10 ottobre, con una perquisizione lacunosa.

“E che pensavano, che io che lavoro tanto mi frego per uno scontrino non emesso?” Rocco Princi, un duro panettiere calabrese che s’è fatto quattro negozi a Milano, ha avuto il fisco ovunque di sabato, nelle ore di maggiore affollamento, per cinque ore, con modi terribilisti. Qualche giorno dopo, scippato mentre andava in banca a depositare l’incasso, ha avuto l’onore delle cronache e si è difeso irridendo il fisco-show. Con lo stesso giro di frase che Campanella usava con i suoi torturatori.
Campanella è sopravvissuto ai 27 anni di carcere, e resta Campanella. Rocco Princi sopravviverà all’inevitabile imputazione di ‘ndrangheta?

Nessuno scandalo a Milano per l’imprenditore scippato per strada. Solo un po’ di gossip sulla visita della Finanza.

Pentiti
Ciancimino, quello vero, il padre, s’era offerto di fare il pentito. A metà marzo del 1993, parlando con l’allora Procuratore capo di Palermo Caselli a Rebibbia. Dopo una settimana, Caselli rigettò la profferta (Ciancimino, incauto? provocatore?, nel colloquio col magistrato aveva avanzato dubbi sugli assassinii di La Torre e Dalla Chiesa, insinuando che fossero stati ordinati dal continente, se non dai “comunisti”). Che Sud avremmo avuto con Ciancimino pentito?

I pentiti hanno destrutturato molte mafie. Hanno sputtanato alcuni giudici. E qualche funzionario di polizia lo hanno rovinato. Oltre ai loro nemici personali. Ma tutti sono retribuiti e pensionati. E la mafia è sempre lì.

La tremenda potenza dei pentiti, inaugurata dai terroristi, sintetizza Antonio Savasta. Catturato l’8 gennaio 1982 dopo 17 omicidi accertati, nella liberazione del generale Dozier che aveva sequestrato, dieci anni dopo, a 37 anni, era libero, con una nuova identità, una professione, tecnico informatico, e un capitale di avviamento fornito dallo Stato.

La cosa è antica, Plutarco la esamina ne “Il demonio di Socrate”: “È naturale che l’anima di ogni scellerato si volga in se stessa e consideri: come fuggire al ricordo della colpa, rimuovere da sé il rimorso, e iniziare di bel nuovo una vita diversa ritornando pura”. Anche per un’economia del male: “La scelta del male non è coraggiosa, lucida, durevole, stabile: altrimenti, per Giove, dovremmo dire che gli ingiusti sono uomini sapienti”.

È fine 2005, Andreotti è infine assolto a Palermo dopo un lungo processo, e il suo avvocato, Giulia Bongiorno, nota: “Negli anni fra il 1993 e il 1995 tutti i pentiti parlavano di Andreotti, ne ricordo almeno trenta, e dopo non hanno parlato più?”»
Contro Giacomo Mancini il generale dei carabinieri Niccolò Bozzo, che sterminò i socialisti in Calabria, dove raccoglievano pericolosamente oltre il 20 per cento del voto, aveva trovato 24 (o 28) pentiti. Che furono buoni a fare il processo preventivo nei giornali, ma il Tribunale dovette assolvere Mancini.
Questa sessantina di pentiti sono tutti pensionati?

Una prima raccolta di queste annotazioni, “Fuori l’Italia dal Sud”, 1992, recava un titolo collaterale: “e con il CONDONO MAFIOSO. Come risolvere la questione Italia”. Era un titolo per ridere e invece il condono c’è stato. Ampio. Benedetto. Con la malsana gestione dei pentiti, tra Biagi, Bocca e Lodato, giudici scaltri e sbirri infedeli: la mafia lavora ora in attesa di pentirsi, prepensionandosi gratis con l’Inps.

Mafia
“Perché tanto dolore?”, si chiede l’ex vescovo di Locri GianCarlo Maria Bregantini all’indomani della strage di Duisbug, “acerbo, pungente, e disarmante”.

Il Procuratore Capo di Reggio Calabria Pignatone inaugura l’anno giudiziario 2012 dicendo la mafia imbattibile: nella sua provincia, dice, nei paesi di 10-15 mila abitanti, si contano 3-400 affiliati ai “locali di ‘ndrangheta”. Che per una ventina di Comuni di quelle dimensioni fanno ottomila killer. Cinquantamila coi familiari stretti, fiancheggiatori obbligati.
Ha un barlume, il Procuratore, che possa essere troppo, e aggiunge: “Numero che probabilmente ora si raggiunge con difficoltà in una città come Palermo” Compresi nei 3-400 quelli che della Procura di Palermo che lo ostracizzarono, minacciando di mandarlo sotto processo?
Palermo non ha diecimila abitanti ma quasi settecentomila.
Un altro Procuratore capo in uscita dalla Calabria, Agostino Cordova, dichiarava vent’anni prima esatti, giorno più giorno meno, che “nella plaga”, cioè nel territorio da lui controllato, la ‘ndrangheta era imbattibile. Si dice per fare carriera? Ma a Cordova alla Procura di Napoli fecero poi la pelle.

La ‘ndrangheta a volte riserva sorprese. Antonio Nirta detto “Du naschi”, due narici, perché sparava a pallettoni col fucile a doppia canna, per anni presentato come capo di una potente cosca di San Luca o di Platì, che teneva sotto controllo la locride e il business dei rapimenti di persona, era un confidente dei carabinieri. Lo disse il generale Delfino agli inquirenti milanesi nel 1993, e il generale Bozzo, il referente di Nirta, lo lascia intendere nelle sue memorie.
Lo stesso Nirta è stato autorevolmente “infiltrato” anche nell’agguato di via Fani a Moro e alla scorta, come il vero esecutore materiale della mattanza. Ma questa storia fa parte delle faide tra i generali dei carabinieri.

leuzzi@antiit.eu

Nessun commento: