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venerdì 3 febbraio 2012

Letture - 85

letterautore

Dante – È un gemelli. Che caratteristicamente se ne vanta nel “Paradiso”, XXII. D’intelligenza pratica.
È “il fondatore di un’aristocrazia letteraria”, sostiene Nino Borsellino, “Ritratto di Dante”. Di questo l’Italia, la società e la letteratura, porta sempre non virtuose le stimmate. Di un’élite sospesa nel vuoto, né terra né cielo, della boria.

Nel “Suicidio della rivoluzione” Augusto Del Noce nota che con De Sanctis si abbandonò Dante per l’apologia e il mito di Machiavelli. E conclude. “Il passaggio da Dante a Machiavelli è l’inizio della crisi o errore del Risorgimento”, l’esclusione dell’Italia religiosa.

È un contemporaneo, di tutti i tempi. Nel senso dell’antifrasi di Mandel’stam: “Dante è antimodernista. La sua contemporaneità è inesauribile, incalcolabile e inestinguibile”. Viene sotto traccia. Per l’incontinenza, l’orgoglio, l’umoralità, il superego, l’individualità rimossa che s’impenna sfrenata. A differenza dei poemi classici, che fanno l’unanimità, di sentire e di pensiero, tutto nella “Commedia” è contestabile. Il giudizio e la politica. Lo stesso cielo allontana più che avvicinare - Beatrice sembra un Dante in gonnella, nei pregiudizi e le violenze, quanto lontana dalla “Vita nova”. Non fosse per la forza narrativa.
Anche come via alla perfezione, o alla salvezza, non funziona, la “Commedia” è irta e scivolosa, per i non credenti e i credenti. E l’esilio, altrimenti tema di nostalgie e buoni sentimenti, è freddo, anche quando è polemico
È un classico ma in senso biblico, divisivo, contestabile.

Resta profetico, benché soverchiato dalla narratività. In questo senso lo inquadra Papini, “Dante vivo”, 1933: “Era nutrito, come tutti i cristiani erano e dovrebbero essere, col midollo della Bibbia. Ma ho il sospetto che si confacesse al suo spirito più il Vecchio testamento che il nuovo. E nel Vecchio doveva sentirsi più vicino ai Profeti”. Per “quel bisogno di avvertire, di ammonire, di minacciare, d’annunziare, in forma simbolica ma spesso irata e cruda, tanto i castighi che le salvazioni future”. Papini trova “le potenti fulminature d’Isaia e di Geremia” anche nelle lettere politiche.
Della sublimazione quasi divina di Beatrice nota che è estranea al cristianesimo e senza precedenti nella poesia di tutti i popoli. Ma il Dio “femminile” non era della poesia cortese, la bellezza di Dio come bellezza femminile, e la donna angelicata? E già della poesia araba, specie dell’andaluso Ibn Arabi.

È Leopardi. Elegiaco, purgatoriale, col “tremolar de la marina”, “l’“oriental zaffiro”, l’“aura morta”, le pecorelle che escon dal chiuso, e naturalmente “Era già l’ora che volge il disio”.

Campanilista e universalista. Mario Luzi , “Rileggendo Dante. Il tema dell’esilio”, lo dice doppiamente marcato, nel rapporto con la città e con le idee e i principi.

Un “Beethoven dell’avvenire” gli pronosticava Lizst scrivendo a Berlioz, e pensava a se stesso. Del musicista vagante Dante fu punto di riferimento costante, fin dalla giovinezza. Con la sonata “Aprés une lecture de Dante” e poi con la “Dante-Symphonie”, con sopranno e coro. “Dante ha trovato la sua espressione pittorica in Orcagna e Michelangelo”, scriveva Lizst a Berlioz: “E gli un giorno troverà forse la sua espressione musicale nel Beethoven dell’avvenire”. Un’ambizione che coltivò tutta la vita: “Durante gli anni italiani egli era solito trascorrere ore intere leggendo insieme all’amata Maria (d’Agoult, n.d.r.) il poema dantesco”, scrive Carlo Cavalletti, “in una sorta di romantica immedesimazione con la coppia Dante-Beatrice”.

Dittature – Il rapporto fra le dittature e l’arte, seppure indagato, resta sconfinato. A partire da Augusto. La Sinfonia n. 10 di Šostakovič, composta nel 1953 dopo la morte di Stalin, viene presentata a Roma, a Santa Cecilia, come “antistaliniana”. Arrigo Quattrocchi ricorda che Solomon Volkov, raccogliendo le confidenze del compositore in “Testimonianze”, gli da dire che la sinfonia “è imperniata su Stalin e sul periodo staliniano”. Un accenno che sembra critico. Ma la sinfonia è un epicedio e un inno, specie il secondo movimento, che sarebbe il ritratto musicale di Stalin. La destalinizzazione arriverà un paio d’anni dopo, per le esigenze del “disgelo” (il disarmo).
La musica e le arti in particolare, più che la letteratura, sembrano avere una particolare predisposizione per i dittatori ancora nel Novecento, in Italia, Germania e Urss.

Italiano – Il “Vocabolario degli Accademici della Crusca”, 1612, di cui si celebra il mezzo millennio, l’opera che ha assestato l’italiano come lingua nazionale, e fu modello a tutta le lessicografia europea, non ha la voce “italiano”. La esclude anzi di proposito, a partire dal titolo. Sul titolo gli accademici discussero per tre anni, spiega Lorenzo Tomasin (“Italiano. Storia di una parola”), ma senza mai l’opzione “italiano”. Optarono per “Vocabolario della lingua toscana”, che in bozze cambiarono in “Vocabolario della Crusca”.
La parola ricorre nelle citazioni ma non ha un suo lemma. Ci sono tutti i nomi di nazionalità, francese e francesco, germanico e tedesco, saraceno e saracinesca, ma non italiano.

Letteratura – Muove il mondo. Anche quella scientifica – questa di più. Anche quella tecnica. Non come metafora del mondo ma come forma di comunicazione calibrata, reale e immaginativa insieme, capace di dare vita al mondo stesso.

Manzoni - Si potrebbe dire non italiano. Stendhal lo direbbe non italiano, così spassionato. Non per le mogli, nè per i figli, che pure fece in gran numero. Nemmeno per l’italianità, di cui pure fu cultore. Per la rettitudine. O per le fede, di cui si voleva araldo.

Tradizione – Capita di fare contemporaneamente quattro letture convergenti. “Il dio delle piccole cose” di Arundhati Roy, attorno a una comunità di cristiani siriaci nel Kerala. Il “Viaggio sentimentale” di Sklovskij, con gli Assiri che vanno e vengono dal Transcaucaso all’India. “L’isola della noce moscata” di G. Milton, dove il primo inglese a visitare l’India è, nel 1589, un gesuita, Thomas Stevens. E la “Prima lezione di storia greca” di Canfora, dove ricorrono le popolazioni di lingua greca e aramaica del Nord-Ovest dell’India sotto l’imperatore Ashoka (III sec. A. C.). Letture che convergono verso una sorta di inalterabilità della tradizione. E verso una cristianità diffusa, anche se compressa o repressa, sempre viva. Mentre è, dal Caucaso in là, un residuo poco convinto. E più per i benefici che se ne attende che per la forza della tradizione.

Traduzione – Croce la divideva, come per la donna, in “brutte fedeli e belle infedeli”.

L’Aits, Acquisition inventive translation syndrome, era stata inventata una ventina d’anni fa per connotare l’invenzione della traduzione. La sindrome non ha avuto fortuna ma il testo inventato dai traduttori spesso prevale sull’originale. I due casi più noti sono dei Vangeli, quello dei Re Magi che portano oro, incenso e mirra e quello del cammello che non passa per la cruna dell’ago. Da tempo si sa che l’aramaico dhb non è oro ma odore, essenza, e che il greco kàmelos si può e forse si deve leggere kàmilos, e vuole dire cima, gomena. Ma le correzioni non si fanno, anche se in un testo sacro la fedeltà filologica è sostanziale. Ceronetti è traduttore Aits, e celebrato, di testi sacri: dalla Bibbia, dal Corano.

Ha anche un martire, almeno uno: Etienne Dolet, umanista riconosciuto, che fu suppliziato a morte il 2 agosto 1546 a Parigi perché la sua traduzione di Platone metteva in dubbio l’immortalità dell’anima. Avrebbe potuto dire che s’era sbagliato, che aveva tradotto da una cattiva copia – Platone è dei copisti, e i copisti non erano chierici?

leterautore@antiit.eu

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