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venerdì 1 giugno 2012

Tra Gesù e Yahvé, che ridere

Sembra un libro serio – il sottotiolo promette: “La frattura originaria tra Ebraismo e Cristianesimo”. E dunque. Il cristianesimo è un ritorno al politeismo, per Maometto e i rabbini – per il triteismo, ovvio, anzi il quadriteismo, con due divinità, lo Spirito Santo e la Madonna, nemmeno veterotestamentarie. Lo Yahvé vero, quello del Redattore Y, “nemmeno Shakespeare è mai riuscito a inventare un personaggio che sia così ricco di contrasti”. Con lui, mancando Shakespeare, “tra le principali figure in competizione ci sono il Gesù di Marco, Amleto e don Chisciotte, così come l’Odisseo omerico trasmutato in Ulisse, la cui ricerca – che si conclude con l’annegamento – riduce il pellegrino Dante al silenzio”. Quanto a Gesù Cristo: “Non possiamo stabilire se, come pensa MacDonald, la sofferenza di Gesù sia un’emulazione di quella di Ettore alla fine dell’«Iliade»”. MacDonald? Dennis R.
Sono le prime sorprese, siamo solo alle prime pagine - chi vuole scandalizzarsene trova “canonica” materia. Con puntate gotico-esoteriche alla Dan Brown, dispettose: san Paolo si accorda con Giacomo Maggiore, il fratello di Gesù, “un non facile accordo”, su come aggredire i gentili. Né manca l’Incarnazione come suicidio del Dio, assurdo – certo. Anche se lo svolgimento è ripetitivo: “I teologi sistematici sono come i critici letterari sistematici: Paul Tillich rappresenta un limitato successo, Agostino un magnifico fallimento”. Tillich? Gesù, considerato ebreo, “di fatto lo era, ma oggi è americano… precursore di Billy Sunday e Billy Graham”. Le battute si sprecano, ogni due-tre pagine. Meglio: Gesù “è il più grande dei geni ebrei”, “Gesù è il Socrate degli ebrei”. Anzi peggio, supera Socrate, “come supremo maestro di saggezza oscura”, sempre per via dell’ironia, “l’amore, più dell’ironia, è ciò che i credenti cercano e trovano in Gesù”, e forse non sbagliano, “il suo potrebbe essere più un amore ironico che un’amorevole ironia” – salvo scivolare rischiosamente: Freud è “la prima incarnazione dello spirito ebraico dopo Gesù”. Né manca “Gesù è Giovanni Battista”, non inatteso da un cultore di Shakespeare, di quelli che vogliono Shakespeare tanti Shakespeare. E il conseguente: “Il re Lear di Shakespeare sta ad Amleto come lo Yahvé del Redattore Y sta al Gesù di Marco”. La proposta ermeneutica.
Allusivo. Solo il sottotitolo originale, “The Names divine”, è onesto, con l’ambiguo rinculo del “divino” alle connotazioni di magia e divinazione. Un atto di superbia. Un repertorio modesto di gag da cocktail party, di agudezas – non volendolo collocare nel disprezzo ebraico per il Cristo. “Nella guerra estetica tra la Bibbia ebraica e il Nuovo Testamento, non c’è semplicemente confronto”. Guerra? E naturalmente è piuttosto Shakespeare, più degli evangelisti, che “riprende dallo Yahvé della Bibbia di Ginevra” – “tacitamente e ingegnosamente”, è vero (per il nicodemismo secentesco? questa è mancata a Bloom, uno Shakespeare ebreo è uno dei pochi che mancano).
Nichilismo non è Nietzsche. Né Heidegger, o gli altri profeti del nulla. È l’ironia. L’ironia? Viene da Gesù: “Amleto, Kierkegaard e Kafka sono ironisti che si muovono sulle orme di Gesù”. Mica vero, ma è naturale: l’ironia dissecca naturalmente, l’atto di conoscenza più solipsista che ci sia, l’atto d’amore più onanista. Si potrebbe ironizzare che con i Bloom, Harold come Allan, solo Shakespeare conta. Ma con questo Harold, battutista irrefrenabile, non si ride.
Harold Bloom, Gesù e Yahvé, Bur, pp. 280 € 9,80

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