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giovedì 25 luglio 2013

Il Pci finisce nel bluff

Più che di un dramma, la fine del partito Democratico dà l’impressione di un bluff. Tra rilanci a perdere, ammuine, traccheggiamenti. Non onorevole: è una mano che non ha bisogno di forti giocatori per vedere il bluff, bastano come sembra i Dc imberbi. Il tempo in cui gli interessi (costruttori, immbiliaristi, banche, finanziarie) hanno puntato sul Pci, ex, come quello che era in grado di garantire le decisioni, amministrative e giudiziarie, è stato breve, da tempo è trapassato, ora vige la sacrestia.
Con l’ottica del bluff si rivedono meglio anche i settant’anni della Repubblica, l’ineffettività del Pci.
Non si fa la storia sul dopo, certo. Ma non è illecito rivedere una vita dalla fine, e qui questa prospettiva è utile. Anche risolvere la storia in poche righe è sbagliato, ma qualche piolo si può mettere. Una storia del Pci allora - peraltro non proprio riassestata su questa fine malinconica, non del tutto - potrebbe essere questa.
Abbiamo avuto un Pci togliattiano, attento agli equilibri politici invece che alla società – alla libertà, alla creatività. Con un proiezione culturale, nel cinema e in letteratura, da lasciar perdere. Indeciso sempre a tutto – questa era la posizione migliore del togliattismo. Incapace di comprendere le novità, produttive, sociali, mondiali, se non con dieci anni di ritardo, e spesso su indicazione sovietica. Il poco che la Repubblica ha fatto, in materia di diritto di famiglia, diritti civili, diritti del lavoro, lo ha divisato e realizzato il Psi, con la “dura opposizione” di quel Pci. Togliattiano e post. Il partito aumentava i voti a ogni elezione, ma un po’ alla Grillo, per protesta, per essere fuori delle alchimie di governo.
Poi è venuto Berlinguer, che ha cominciato a perdere anche le elezioni, e ha inquadrato il partito in assetto da guerra civile: noi contro tutti. Facendosi forte, anche in morte, anche postumo, della questione morale. Lui che aveva tanti amministratori sotto processo quanti ne aveva il caf messo assieme, tutto il centro-sinistra.
Poi è venuto lo scioglimento, che è stato una serie di sconfitte – benché Berlusconi non fosse imbattibile, un paio di volte lo ha sconfitto Prodi, un uomo solo. La caduta del Muro, invece che essere il punto di rilancio, come è delle crisi, spesso “salutari”, ha avviato una serie di sconfitte che definire errori è un errore: sono il segno di un’incapacità mentale. Di un partito senza verità, solo compiacente con se stesso. Che più che una fede e un impegno impersona una burocrazia. Con i suoi piccoli – e meno piccoli, si veda il sacco urbanistico di Firenze – interessi.
Il Sud è stato alienato alla carriere di Caselli e Violante - non sembra possibile ma è quello che è accaduto. Il Nord al fascismo giustizialista. Al fascismo in senso proprio, non per modo di dire: c’è una sola corporazione in Italia, ed è quella dei giudici, impenetrabile a ogni buonsenso, nonché alla democrazia e alla costituzione, solo violenta. Mentre le regioni rosse si scoprono amministrate più male che bene, la Toscana e l’Umbria dopo Bologna – erano città e territori che dopotutto si amministravano bene perfino col papa, o con gli arciduchi assenti. Il grande patrimonio cooperativo, di produzione, trasformazione e consumo, è lasciato allo sbando.
Un partito, forse, ancora di massa – un 10 per cento è sempre un quattro-cinque milioni di voti. Ma di masse disperse, in età, infine scettiche.

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