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lunedì 5 agosto 2013

Se l'amore è un tormento, non banale

L’editore prosegue la pubblicazione dei racconti dell’autrice di “Suite francese”, per lo più inediti in Italia, con un programma che si annuncia esaustivo. Ma “Giorno d’estate”, il titolo della raccolta, è già uscito da poco in traduzione da Elliot, nella raccolta “Un amore in pericolo”. Ripropone il tema, nodale nella scrittrice, della figlia non amata dalla madre. Insieme con quello dello strano destino della coppia, che crea infelicità – o dell’amore, che pure non costerebbe nulla, solo un po’ meno capricci. La bambina apre il racconto felice, sicura che i genitori e la natura tutta siano solo occupati a festeggiare il suo compleanno. Mentre il padre pensa che “certe unioni sembrano risvegliare nell’anima un dolore sordo, come il basto ferisce il fianco delle bestie appaiate”. E discute sottovoce con la madre l’opportunità di lasciarsi, contrario a “questa specie di felicità calma e uggiosa che chiamano l’amore felice”. “Domenica” ripropone l’infelicità dell’amore nel giorno della festa. L’attesa gioiosa della figlia all’appuntamento mancato. Il ricordo delle attese felici della madre, che il marito lascia per correre dall’amante: una donna che “non ama l’amore”, non più.
Anche “Legami di sangue” è stato tradotto di recente, sempre da Elliot – è un racconto lungo che troverà un’architettura più solida nel romanzo “Il calore del sangue”, uno dei meglio riusciti. Ed è il terzo tema dominante della narrativa di Irène Némirosky, dei misfatti della consanguineità, dei legami familiari, anche se senza colpe specifiche.
Laure Adler dice Irène Némirovsky “la scrittrice della solitudine caparbia”. Una solitudine che oggi si potrebbe leggere come “un richiamo e un’elevazione di se stessa”. Ma si dovrebbe dire il contrario: non la solitudine, subita o esibita, ma l’insofferenza a essa, così “irragionevole” di fronte all’amore e all’amicizia. Anche nella coppia. Per un ricorso naturale agli altri, spontaneo, in lei caratteristico nel ritorno costante alla felicità dei vent’anni, in quanto schiudersi alla vita, pieni di umori e di energie. Che non è banale come sembra: è come uno scalatore che non trovasse appigli solidi sotto i piedi ma s’intestardisse nella scalata.
È questo il proprio di Irène Némirovsky, dell’opera come della vita: l’insofferenza al rifiuto dell’amore, al suo travisamento, alla dispersione. Il suo tema. Più discussa, a motivo dello scandalo, per i temi di contorno, il rifiuto reciproco con la madre e il rifiuto dell’ebraismo, ha il suo filo conduttore nelle pene dell’amore. Nei tanti modi in cui l’uomo si rifiuta a questo che è il più bello dei suoi doni esclusivi, più del pianto o del riso, e per nulla oneroso. Visto con l’occhio del bambino, che resta ingenuo anche nella contemporaneità sospettosa, e dell’adolescente in fiore.
Sul rapporto suo proprio con la madre, la scrittrice aveva ampia materia. Sull’ebraicità come condizione esistenziale non era sola, e forse non lo è neanche oggi, che l’argomento è più sensibile. Il rifiuto non è della cosa, ma dell’identificazione-costrizione. Di una condizione a cui si viene costretti, quasi come un’imputazione di colpa. Ci sono connotazioni che non costringono, larghe, lasche, che si possono apprezzare o rifiutare senza danno, e altre che invece – solitamente politiche, religiose o razziali – sono una specie di prigione, di per sé, anche senza cattive intenzioni, e tali si manifestano quando sono rifiutate.
Irène Némirovsky, Giorno d’estate, Passigli, pp. 154 € 14,50

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