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giovedì 8 agosto 2013

Il poeta si riscatta con l’invettiva

 “L’ultimo cavaliere del cielo\ giudicato dalla magistratura italiana,\ dichiara di non avere illusioni”. Sarebbe stato Delfini berlusconiano? Non avrebbe potuto, fu candidato socialista nel 1953 contro la “legge truffa” nelle liste di Unità Popolare. E solo si commuove per i moti di Genova, e i morti di Reggio, nel 1960. E poi era del 1907, avrebbe avuto 106 anni. Ma era arrabbiato, sotto la bonomia che esibiva. “Un mucchio di sospiri\ senza firma\ una rete di gioie\ senza piaceri\ valanghe di malinconia” lo seppelliscono in una delle prime poesia recuperate, di quando aveva 24 anni, intitolata “Non c’è niente da fare”. Coi giudici era prevenuto per motivi suoi, anche nella maturità le invettive sono feroci: “È morto il Procuratore del Re”, o “Sei disgraziato, giudice Grattini”.
Si ripubblica raddoppiata, con le poesie di prima e quelle successive, la prima e ultima raccolta che Delfini aveva approntato  nel 1961 e gli varrà il premio Viareggio postumo nel 1963 - un premio, oltre che alla memoria, di sostituzione, non potendosi dare a Piovene, come la giuria voleva, perché il finanziatore Olivetti (Arrigo, non Adriano) disse di no: questa vicenda lo avrebbe fatto infine felice, il ritardo e la sotituzione. Le ultime sono di un’amarezza sconfinata, si direbbero poesie dell’invettiva e dell’odio. Tali da trasformare il dandy oblomoviano, dalla tante idee non scritte, in un epigono, a distanza, di Cecco Angiolieri, un filone senza fortuna nella poesia italiana. “Me ne frego” è terrificante, una delle prime composizioni, che Delfini propone a “ballatella”. Precetto ribadito subito dopo da “Pierino”. Da giovanotto senz’arte con l’alfaromeo - lui si voleva flâneur baudelairiano, ma Baudelaire lavorava moltissimo.
Marcello Fois, uno dei prefatori, ipotizza “un imprinting lunatico” padano, comune a Zavattini e Guareschi, “nonostante la placida, ostinata e porosa orizzontalità della pianura”. E evoca la “rapidità vertiginosa”, che Natalia Ginzburg, editrice del Delfini narratore, vi aveva riscontrato. Ma allora in una con l’accidia. L’indolenza, il rinvio – “sento che potrei tacere benissimo”. Lui è contro il padanismo, al Signore chiede: “Vorrei tu mi armassi la mano\ per incendiare il piano padano”.
Irene Babboni, che cura questa edizione, mette curiosamente in rilievo la mancanza nel “poeta” di una cifra stilistica, volta a volta “manierista, lirica, romantica, crepuscolare, sghemba, sgrammaticata, scombinata, bettoliera, offensiva, innamorata”. Il nonsense si può aggiungere, in un paio di componimenti: Delfini riusa tutto, ogni lettura quasi copia e incolla. Abile anche nel collage vero e proprio: figurativo, dei ritagli, e verbale, di titoli, slogan pubblicitari, versi rubati. Ma questa dell’ira è bene una cifra,  contrariamente alla favola del Delfini modenese spensierato e anzi frivolo. Specialista dell’autoedizione, fino alla tarda scoperta da parte di Bertolucci – un quasi compaesano – Parma-Modena - anche se poi eletto a nemico sulla novella questione della secchia rapita, la Certosa di Parma stendhaliana che Delfini voleva a Modena. L’unico suo sbocco per molti anni fu “Il Caffè”, la rivista di Giambatista Vicari, un altro quasi compaesano, oggi dimenticata, ma benemerita per chi amava leggere qualcosa di reale-irreale, e di non omologato, inventivo, che negli anni 1950-1960 latitava, sotto la cappa del neo realismo. A lui la primizia del “voto nel cesso”, che l’opportunista Montanelli trasformerà nell’apologia del voto alla Dc: “Votate, votate, votate\ votate nel vaso\ ma con la mano lo scudo crociato\ segnate per caso”. È sul “Caffè” che Bassani lo ha scovato poeta, divertito e divertente. Ma isolato. Benché di natura socievole, e sempre nel posto giusto, a Firenze prima della guerra, a Roma e Viareggio dopo. Non apprezzato.
Nelle “Poesie della fine del mondo” l’annientamento viene dal rifiuto. Di una donna, da parte di lei. Giorgio Bassani – che editor, dopo Bertolucci, dopo Ginzburg, che tempi! – vi premise un distico di Noventa, “Saver de no’ esser gnente\ Xè scominziar a amar”. Ma è sbagliato. La “fine del mondo” non è della storia, della Bomba allora incombente, della natura. Niente di esistenziale in Delfini, cioè di metafisico, solo una donna che l’abbandona. Le poesie della raccolta, scandisce nella premessa, “sono state scritte dopo il 15 febbraio 1959, giorno dell’agnizione, del rifiuto da parte della “cialtrona Luisa B.”. Alla quale sono “dedicati” anche molti componimento esclusi dalla raccolta di Bassani.
Potenza dell’amore? Delfini è di meno, e in certo senso di più, tanto è immotivatamente alieno, odiatore sotto la bonomia e lo scherzo. Maledice già prima della fine del mondo. I mirandolani (-esi), di cui poi si vorrà paladino, i radicali, i liberali, la donna in genere (o era già Luisa B. nel mirino?), i comunisti e i democristi, i social-democratici – “Monarchico anafilattico,\ allergico repubblicano,\ idiosincratico socialdemocratico.\ Rimasto son solo”. E i giudici.
Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo, Einaudi, pp. XXIX+227 € 15,50

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