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lunedì 17 marzo 2014

Il mondo com'è (166)

astolfo

Concilio – Il Vaticano II, “il Concilio,”, fu una sorta di guerriglia, condotta dagli ecumenisti, contro l’opinione e le tesi prevalenti. Così o spiega Yves Congar, il cardinale teologo francese che ne redasse molti testi, nel suo dettagliatissimo “Diario del concilio”, che volle pubblicato  “dopo il 2000”  - nel quale fa anche un elenco dettagliato dei testi alla cui stesura contribuì come consultore (il “Diario” è stato pubblicato in Francia nel 2002 e in Italia nel 2005). Numerosi gli apprezzamenti sprezzanti per le gerarchie vaticane e per la chiesa maggioritaria. Per la “finalità ultima (téléfinalité)  del Concilio era l’ecumenismo, e quelli che pensavano che il Concilio dovesse invece enunciare la dottrina della Chiesa erano una “cricca oscurantista”. Nella cricca in un punto Congar annovera mons. Fenton, il cardinal Ottaviani ed “il Laterano” – per “Laterano” intendendo mons. Antonio Piolanti, allora rettore della Pontificia Università Lateranense, e p. Carlo Balic, che vi insegnò dal 1961.

Il fatto non è nuovo, e “incontra” molto anche presso i buoni francesi fedeli del papa, come oltremontanismo (il governo nazionale dei vescovi) e come localismo, simbiosi dei praticanti con i loro preti e vescovi. Tra essi Racine, “Breve storia di Port-Royal, p. 76: “Secondo la dottrina francese, il papa è infallibile soltanto quando si trova a capo di un Concilio”. La chiesa romana era già decentrata prima del Concilio.

Eurasia 2 – È lo Hearthland di Halford John Mackinder (1861-1947),diplomatico, geografo, esploratore, alpinista inglese. Gli studi e il concetto furono elaborati da Mackinder per spiegare l’espansione territoriale russa, verso la Georgia e l’Iran, e fino al Pacifico con la Transiberiana. E degli Stati continentali in genere, come la Germania. Ma il suo “cuore della terra”, che avrebbe dato il dominio del mondo, appare per molti aspetti una tarda derivazione del Raj (regno in hindi), l’impero britannico o vittoriano, è l’insieme continentale che unisce l’Europa e l’Asia. Se ne celebrano i 110 anni: il concetto fu presentato il 25 gennaio 1904 alla Royal Geographical Society di Londra, nella conferenza che intitolò “The Geographical Pivot of History”, e quindi spiegato su “The Geographical Journal” (“Il perno geografico della storia” è stato tradotto da Fulvio Borrino e Massimo Roncati nel n.1 della rivista “I castelli di Yale. Quaderni di filosofia”, 1996).
Mackinder, uno dei fondatori nel 1995 della London School of Economics, è più noto quale teorico  della moderna geografia, metodi e scopi. Il concetto di Eurasia legava invece all’imperialismo: alla guerra e alla conquista dei territori. L’Eurasia era lo zoccolo più solido per compattezza territoriale, popolazione, stratificazioni storiche e culturali.

Iran – Ha cercato in Russia, e da qualche anno in Cina, nell’Eurasia, l’alternativa alla proiezione mediterranea che fu l’altra costante del paese, dal tempo di Dario e Maratona. O di Serse e Ester - un legame che l’ebraismo religioso festeggia a metà marzo, come ogni anno, nel Purim, il giocoso “carnevale”. Questa proiezione è preclusa ora dall’inimicizia recente con Israele. Mentre la proiezione eurasiatica è favorita, anche vantaggiosamente, dalle sanzioni che a vario titolo da ormai 35 anni gli Usa periodicamente impongono all’Occidete.

Le due civiltà più antiche della regione, la persiana e l’ebraica, sono fatte per intendersi, e tuttora si riconoscono, specie di fronte alla più recenziore e invadente civiltà araba. Ma si combattono. Anche con animosità: certe branche del khomeinismo, fino all’ex presidente Ahmadinejad, sono antisemite. Antiebraiche forse per non poter essere antiarabe, non pubblicamente. 

Liberalizzazione – È statalizzazione senza Stato”. Ossia finanziamento pubblico a piè di lista e senza corrispettivo della finanza privata.
Ha moltiplicato l’indebitamento degli Stati. Ovunque, nella Gran Bretagna di Margaret Thatcher e gli Usa di Reagan, e poi in Francia, in Germania, in Italia, a mano a mano che è stata adottata. Mentre riduceva fortemente il corrispettivo della spesa pubblica, in servizi sociali.

Il passaggio dallo Stato sociale, proprietario, imprenditore, allo Stato debole ha visto un disimpegno totale dello Stato dalla produzione (in Gran Bretagna, Italia, Germania, con poche eccezioni in Francia), e molto ampio dalla sanità (Gran Bretagna, Germania, Olanda, Francia, Italia) e previdenziale (Gran Bretagna, Germania, Italia), mentre il debito si è ovunque moltiplicato. È due volte e mezzo quello del 2003, secondo l’“orologio” dell’“Economist” che aggiorna il dato in tempo reale, essendo passato da 21 mila a 53 mila miliardi.

Alcuni paesi l’hanno raddoppiato: la Germania da 1.430 a 2.800 miliardi, pur avendo dimezzato i servizi sanitari e ridotto i trattamenti pensionistici, il Giappone da 6.540 a 12.400 miliardi. La Francia l’ha più che raddoppiato, da 1.015 a 2.400 miliardi. Gli Usa più che triplicato, da 3.600 a 13.300. La Gran Bretagna quasi quadruplicato, malgrado abbia smantellato, letteralmente anch’essa, lo Stato sociale, da 680 a 2.500 miliardi. Il debito italiano è quello che è aumentato meno nel decennio, da 1.500 a 2.400 miliardi di dollari – ma a fronte di un’economia in recessione per ben cinque anni su dieci, non è un esercizio di virtù.

È un debito per il debito. Cioè per gli investitori, che trovano comodi (sicuri, redditizi), i titoli di debito pubblico. Per il mercato.

Forse il beneficio della liberalizzazione c’è sulle tariffe e le materia prime. Ma non è certo: le materie prime hanno raddoppiato, triplicato a volte, di valore in più fasi del ciclo. Il petrolio a 100 dollari, con l’economia mondiale in recessione, non sta scritto in nessuna legge del mercato, della domanda e dell’offerta.

Ostpolitik – La politica di apertura e avvicinamento all’Est Europa e il blocco sovietico, divenuta centrale in Europa per iniziativa di Willy Brandt quando fu cancelliere, tra il 21 ottobre 1969 e il 6 maggio 1974 (costretto alle dimissioni da uno scandalo spionistico armato da Mosca…), fu ripresa come appeasement (resa) dal Vaticano di Paolo VI e, in una prima fase, di Giovanni Paolo II, nella persona di mons. Casaroli, che il papa polacco vorrà nel 1979 segretario di Stato.
Brandt, il cancelliere della Ostpolitik, culminata nel 1970 nella sua vista a Varsavia e la richiesta di perdono in ginocchio, e per questo Nobel per la pace nel 1971, fu costretto alle dimissioni nel 1974 da uno scandalo spionistico armato da Mosca (aveva assoldato il suo segretario particolare Guillaume, e lo “bruciò”).
Della Ostpolitik di Casaroli è significativa la vicenda del cardinale Mindszenty, già carcerato nell’Ungheria occupata dai tedeschi, mandato all’ergastolo dal regime comunista, liberato nei moti ungheresi del 1956, ostaggio nell’ambasciata Usa in Ungheria, libero infine di trasferirsi in Vaticano nel 1971. La liberazione nel 1971 avvenne su iniziativa di Nixon e Kissinger, con uno scopo preciso: Mindszenty si oppose alla trattativa di Casaroli con i governi comunisti, che se accettavano una ripresa delle attività religiose si riservavano la scelta dei vescovi e anche dei parroci. A novembre del 1973 Paolo VI chiese a  Mindszenty le dimissioni dalla carica vescovile in Ungheria. Il cardinale rifiutò e Paolo VI, dopo un paio di settimane, il 18 novembre gli tolse l’incarico. Mindszenty lasciò il Vaticano per Vienna, dove morì. 

Parlamentarismo – Gioverebbe rileggere Robert-Roberto Michels, il sociologo politico tedesco poi naturalizzato italiano, socialista senza cattedra (i socialisti non potevano insegnare all’università tedesca nel fino alla grande guerra), poi liberale in Italia intimo di Einaudi. Per la crisi del parlamentarismo in Italia e non solo. Sintetizzando le sue conclusioni (con l’ottima sintesi di Wikipedia), insieme a qualche esito contestabile molto aveva visto di vero – “io di rivoluzioni ne ho viste tante, di democrazie mai”.
Il parlamentarismo è una falsa leggenda: non siamo noi che votiamo i rappresentanti ma i rappresentanti che si fanno scegliere da noi – sulla stessa frequenza i movimenti e i teorici contemporanei oltralpe che dicono ininfluente il voto (i “cittadini come consumatori” del noto saggio che Wolfgang Streeck, sociologo militante, ha pubblicato sulla “New Left Review”, o il bestesellerista Van Reyboeck che perora eloquente la causa del sorteggio, più “democratico” del voto….). Lo Stato non importa alla maggior parte delle persone, soprattutto per ciò che attiene le vicende prettamente istituzionali: non si può sperare che la partecipazione parta dal basso. Il principio della democrazia è ideale e legale (perché comunque si va a votare) ma non è reale in quanto, in realtà, la base non può scegliere nulla. Votando non diventiamo compartecipi del potere: “La scienza ha il dovere di strappare questa benda dagli occhi delle masse”. “La formazione di regimi oligarchici nel seno dei sistemi democratici moderni è organica”. L’opposizione parlamentare ha lo scopo, in teoria, di sostituire il gruppo dirigente avversario, ma in pratica ambisce ad amalgamarsi. I movimenti popolari sono sempre traditi, chi li guida ha l’ambizione di entrare a far parte della classe politica (“parte incendiario e arriva pompiere”). Nel partito politico operano le stesse dinamiche che nello stato: entrambi sono oligarchie che si irrobustiscono per perpetuazione – cooptazione, designazione, acquisizione.
E il carisma, di cui oggi si fa spreco. In parziale dissenso da Max Weber, che lo aveva teorizzato, dopo un’amichevole discussione Michels opina che il leader debba costruirselo nel rapporto diretto col popolo, e non in Parlamento, costituendo o controllando cordate.

astolfo@antiit.eu

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