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martedì 11 marzo 2014

Letture - 164

letterautore

Cattolico – È denominazione in disuso, dopo essere stata inalberata con orgoglio e anzi ostentata negli anni 1950, anche 1960. Di FrançoisMauriac come già di Bernanos, o di Graham Greene, Flannery O’Connor. In Italia invece restava confinata a Betocchi – Luzi, che ora vi si ascrive, ne rifuggiva, o Cristina Campo. La qualifica è in desuetudine dal Concilio, che lungi dall’avvicinare il mondo, lo ha allontanato: essere “cattolico” in generale non si dice più.

Croce – È Marx. Non lo è naturalmente, ma lo è stato, più e meglio di Labriola. Bobbio lo ha ricordato, più di una volta.
Croce è il nume del liberalismo italiano, ma lo è stato tardi. Si rilegge (viene rispoposto) per gli scritti di storia, brillanti d’intelligenza e aneddotica, ma non per gli scritti filosofici, soprattutto non i primi, anteriori alla polemica con lo “Stato etico” di Gentile.

Claudio Tuozzolo, studioso della trasposizione dello hegelismo in Italia, ci ha scritto sopra nel 2008 un saggio appuntito, “Marx possibile. Benedetto Croce teorico marxista 1896-97”. Più sul Marx crociano che su Croce marxista, ma ciò non toglie che al suo debutto a trent’anni nella pubblicistica filosofica, dopo l’apprendistato in Germania, Croce si può dire marxista. Con una certa coerenza anche, in tema di materialismo storico, che non è metafisico, e dei concetti chiave di valore, lavoro, e critica (scientificità) – seguendo le argomentazioni di Tuozzolo, non pretestuose, si resta folgorati.  Anche nella pubblicistica, Croce pendeva, oggi diremmo, a sinistra, verso Michels e Sorel, cioè si collocava in un ambito di letture e discussioni socialista. Con una  tarda deriva in guerra,  nel 1915 Croce aveva cinquant’anni, verso la realpolitik, compreso, prima del ripudio anti-Gentile, lo Stato-potenza del Treitschke, per esempio nelle “Pagine sulla guerra”.
Nelle “Note autobiografiche” aggiunte nel 1934 al “Contributo alla critica di me stesso” del 1915, Croce stesso lo dice: gli sconvolgimenti seguiti alla guerra, cioè le rivoluzioni, lo portarono da un lato a rifare la storia dell’Italia unita, con un insieme incredibilmente prolifico: “Storia d’Italia”, “Storia d’Europa”, “”Una famiglia di patrioti”, “Uomini e cose della vecchia Italia””Vite di avventura, di fede, di passione”, e i tantissimi saggi inutili sulle mediocrità letterarie della “Nuova Italia”. Contro l’“ignoranza delle nuove generazioni”, ma di più contro “l’obbrobrio, lo spregio e lo scherno”, che “per calcolata azione partigiana venivano gettati sulla modesta e onesta e solida opera dei nostri padri e nostra, onde l’Italia prese il suo posto nella moderna cultura e nella politica internazionale”. Per analoghi motivi, anche se Croce non lo dice, ma comunque in parallelo, andò la “curvatura” filosofica. Non più professorale e astrattamente speculativa, ma “subserviente alla storia”. E in questa prospettiva solo liberale: non c’è altra filosofia possibile.
In altra chiave, a proposito del “trascendente” non più possibile, sempre nella nota del 1934 Croce ha spiegato il suo marxismo e l’abiura. Intorno ai trent’anni ebbe una sorta di seconda crisi religiosa, scrive: “Il trascendente mi si ripresentò in veste terrena e laica, che ne celava l’interna contradizione con un’apparenza storicistica di carattere filosofico e dialettico; e prese forma di una generosa radicale liberazione dal male, dall’ingiustizia e dall’irrazionalità mercé di un uovo mondo da costruire che sarebbe stato l’unico, il vero «regno della libertà», dopo tanto secolare affanno di servitù”. Ma non durò: “Le dottrine del Marx non ressero alla critica coscienziosa e spregiudicata a cui fui a passo a passo condotto e costretto; e quel suo regno egualitario o comunistico mi si dimostrò incapace di realtà storica, e quasi meno fondato, direi, della «Città del sole»”. Della bonaccia al cuore della tempesta, o intermezzo, che Campanella diceva pausa o prodromo “alla fine del mondo che profetava imminente”: il Marx gli si rivelava più apocalittico.
Ancora in guerra, ricorda, Croce si ritenne impegnato “principalmente su due punti”. Il secondo era stato opporsi all’“odio e disprezzo del nemico”, alla costruzione del nemico. “Il primo punto era la difesa dell’autorità e forza dello Stato, contro le ideologie democratiche, e della politica in quanto politica contro la rettorica umanitaria”. Le rivoluzioni gli fecero cambiare idea, il sovietismo che non nomina e “il cosiddetto fascismo”.  Si diede allora il compito di contestare “i cosiddetti «stati totalitari»”, e cioè “l’asservimento dell’arte, del pensiero, della religione, del costume alla politica, la quale poi, in questa spasmodica sua prepotenza, invece di potenziarsi, perde la sua ragione di vita e la sua forza”. 
Ma nella stessa abbondante e appassionata sua pubblicistica degli ultimi suoi trent’anni si trova molto liberalismo, e nessuna apologia dell’individuo.  

Dante - Era un prete albigese a Firenze, in incognito, nonché affiliato all’Ordine del Tempio. Così lo qualifica Eugène Aroux, che il ghibellino Dante voleva anche repubblicano e socialista. In un pamphlet del 1856, che le Edizioni Arktos di Carmagnola hanno pubblicato non tradotto nel 1981. Una “Clef de la Comédie anti-catholique de Dante Alighieri, pastore della chiesa albigese nella città di Firenze, affiliato al’Ordine del Tempio”.Una “chiave” che dà anche “la spiegazione del linguaggio simbolico dei fedeli d’amore, nelle composizioni liriche, i romanzi e le epopee cavalleresche dei trovatori”.

Ipocondria – Bandita dai dizionari psichiatrici e medici, è la normalità della narrativa (anche della poesia) italiana, europea, occidentale. Non tutta, ma al novanta per cento sicuro. Anche se nell’accezione poco scientifica di malinconia: la riflessione malinconica su sue stessi, la narrazione delle proprie minute evenienze.
L’etimologia è peraltro legata alla malinconia: ipocondria è, anatomicamente, la parte dell’addome che sta sotto le costole, e racchiude il fegato, la cistifellea, la milza, le visceri, la sorgente della “bile nera”. Ma non la narrazione vi era legata. Fino all’insorgere, negli epigoni flaubertiani, dello psicologismo, la tentazione e poi la pretesa di costruire personaggi psicologicamente coerenti e autodeterminati. E man mano - accorciando il raggio e restringendo la prospettiva, dopo l’irrompere dell’io nella narrazione senza vergogna - all’io stesso, in una sorta di onanismo.

Pedofilia – Dopo il diario di Conh-Bendit quando era maestro in Germania e amava i bambini, vanno le memorie erotiche più o meno vere di donne in età, a volte insegnanti, del loro bisogno quasi compulsivo di farsi i ragazzi. Necessariamente puberi, ma non di tanto, li vogliono “innocenti”. Non come lettura d’evasione ma d’impegno. Viene il dubbio che la pedofilia resti sotto tiro, nella liberazione sessuale generale, perché ci sono di mezzo i preti non sposati, i preti cattolici – con le cause milionarie in America (molto “reale” negli Usa è opera degli avvocati a percentuale). Per anticlericalismo insomma. Anche tra i “ragazzi di vita” di Pasolini, che ormai vano per i settanta, si moltiplicano a Monteverde, nei gruppi di lettura, nelle auto edizioni e al caffè, i ricordi affettuosi. Anche di cose che non ci sono state – piace pensare Pasolini orco, come si flagella nel postumo “Petrolio”, incontinente, insaziato, prepotente.

Sovietismo – Fausta Garavini, studiosa di eccellenti frequentazioni, dal suo maestro Contini in giù, e sicura democratica, è stata boicottata una vita all’università per avere scritto un saggio su Brasillach – ottimo scrittore francese, nazionalista, fascista, nazista, antisemita, fucilato alla Liberazione, a 35 anni. Benché l’avesse scritto da francesista, parte di un programma di ricerca di Contini, e senza condiscendenze politiche. Non è stata espulsa perché accidentalmente un giorno finì  fotografata sulla prima pagina de “L’Humanité”, il giornale del partito Comunista Francese, a una manifestazione di sostegno ai minatori. “Mi trovavo lì perché quello che poi sarebbe diventato mio marito era uno scrttore (Robert Lafont) ma anche un sostenitore della loro causa”, si giustifica. Ancora oggi, a 75 anni e garantita dalla pensione, è traumatizzata. Con Michele Neri, che la intervista per “Sette”, non ha pace, anche nella quiete della sua casa a Fiesole, finche non trova il giustificativo

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