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domenica 9 agosto 2015

Secondi pensieri - 226

zeulig

Antimoderno – È reazionario? La categoria è stata coniata dallo scrittore Antoine Compagnon, filologo al Collège de France, dieci anni fa, “Les Antimodernes. De Joseph De Maistre à Roland Barthes”, non ben ricevuta – soprattutto dai “barthesiani”: Barthes amava i classici ma non in opposizione alla contemporaneità, che comunque seguiva e apprezzava, anche se non la studiava. Essere “antimoderni” è essere contro la doxa, l’opinione prevalente. Essere anticonformisti, comunque di giudizio riservato. Ma una caratteristica della categorizzazione di Compagnon è nuova e indiscutibile: che il “reazionario” è anticonformista – un De Maistre di oggi difenderebbe l’illuminismo. Questo è difficile da accettare, ma forse non c’è possibilità di fuga. Compagnon è preceduto su questa strada da ampia e robusta schiera: Donoso Cortès, Jünger, Noventa, etc. Bisogna essere a disagio con la contemporaneità per essere reazionari. E viceversa forse pure, non c’è altra collocazione. Del resto, l’“antimoderno” di Compagnon non era stato inglobato nel “postmoderno”, di chi voleva essere contemporaneamente classico e tradizionalista, se non passatista, e insieme à la page?
 
Hannah Arendt – Sbiancata dal sospeto infamante di leso ebraismo per il famoso Eichmann esecutore volenteroso e banale, il suo giudizio viene bizzarramente in forse per l’incauto patrocinio prestato a Heidegger nel dopoguerra. È grazie a questo patrocinio, prima che a quello dei francesi, anche se non si dice, che si arrivò a una rapida riabilitazione, che Heidegger è Heidegger, il monumento. Un errore di giudizio politico, indotto dalla passione (Hannah era stata l’amante ventenne di Heidegger quarantenne, che per lei resterà il solo amore), sarebbe molto grave per una filosofa della politica.
Il caso si pone dopo la pubblicazione del vol. 97 delle opere di Heidegger, con alcuni dei “Quaderni neri” in cui lui stesso si presenta come ipocrita. La riserva mentale era avvertibile per molti aspetti prima della pubblicazione dei “Quaderni”: mai una parola sull’Olocausto, mai una parola su Hitler, accenni non equivoci a un’alba che non può mancare, al destino etc., e il sorriso sempre furbo, perfino ironico, anzi sardonico, di sfida. Come ci può essere una relazione personale, sentimentale, per di più senza l’impulso dei sensi, a distanza, con uno che pensa e scrive che l’Olocausto gli ebrei se lo sono voluto, è un autoannientamento, indotto dalla loro perversione filosofica e dal loro impegno cieco per la tecnica, per l’innovazione, della cosiddetta filosofia strumentale (e di quella sua propria no? della parola, del suono, perfino del numero).
Uno che pensava e diceva, anche, degli Alleati che avevano trasformato la Germania in un campo di concentramento. Col sottinteso che la guerra l’avevano fatta gli Alleati ai tedeschi, e non viceversa. Intendendosi per Alleati non i francesi o gli inglesi, ma gli odiati russi (odiati perché comunisti e perché slavi: i tedeschi hanno odiato a lungo anche gli slavi, dicendosene accerchiati) e, di più, gli americani - Hannah Arendt era divenuta americana.
Anche nella relazione d’amore, studentessa-professore, Heidegger era stato ben fascista: le imponeva appuntamenti al buio, di notte, fuori città, e quando se ne stancò la licenziò. Nel dopoguerra, non per caso, come pensava Hannah Arendt, cercò a mezzo di lei, che aveva raggiunto negli Usa un forte status accademico, e ottenne la riabilitazione. Come non sentirne, intuirne, capirne, l’ostilità? Non tanto segreta, peraltro, Heidegger parlava e scriveva anche molto. Leggendolo, nessun dubbio era possibile. Era irrilevante? No.
Oltre che Hannah Arendt, Heidegger ha avuto altre amanti ebree. Una, Elisabeth, “Lisi”, Blochmann, perfino nel rifugio di Todtnauberg, la baita costruita per lui dalla moglie Elfride. Aveva la fregola facile, e certamente un grande fascino, e tuttavia l’ebraismo – la giudeità - era per lui un fattore differenziale.

Modernità - È imprescindibile – è il presente – e per questo deformata? Dopo il postmoderno di Lyotard, 1979, la seconda modernità, o società del rischio, di Ulrich Beck, 1986, la surmodernità di Marc Augé, 1992, l’ultramodernità di Anthony Giddens, 1994,  la metamodernità, dello stesso Giddens, l’ipermodernità di Gilles Lipovetsky, 2004, l’antimdernità di Antoine Compagnon, 2005. È una rincorsa. Di scalpelli a volte acuminati ma  deboli per scalfire il presente.
Lo scrittore-artista Carlo Bordoni, volendo caratteristicamente aggredire il postmoderno, lo riduce, su “La Lettura” domenica 2 agosto, a “Drive in” (1983-1988), il programma tv contenitore di Antonio Ricci, a Jeff  Koons nell’arte, a Robert Venturi e Frank O. Gehry in architettura, a “Il nome della rosa” nella narrativa. Eco, autore del “Nome della rosa”, forse ne sarebbe sorpreso. Ma è poco, o è molto? Certo non definitivo – Francis Fukuyaama e la fine della storia saranno stati  l’ultima postmodernità.

Tempo – Si può cancellarlo, evidentemnte, con logica matematica - anche da prima di Einstein. Ma si ripropone di fatto, non solo come scansione (metronomo) e come accumulo (memoria), ma nel mutamento della natura (clima, organismi), della natura stessa dell’uomo che il tempo avrebbe escogitato, dell’astrofisica, e della stessa fisica matematica, evidentemente.

Virale – La parola del momento sta per infetto? Molti video “virali” lo sono, artefatti: “tagliati”, illuminati, accelerati, rallentati, di quel tanto che non si vede ma “fa” il messaggio. La comunicazione visiva è artefatta come quella scritta, solo che non ce n’è una retorica.
 

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