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mercoledì 12 agosto 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (254)

Giuseppe Leuzzi

Palermo fa i conti: 300 mila euro per i convegni all’Expo, e non uno in cui si sia visto un minimo di curiosità: sempre sedie vuote. La Sicilia non interessa a nessuno, nemmeno ai siciliani di Milano, pure tanto patriottici in pasticceria? Il Sud paga anche l’Expo, la solita bufala creata da Milano?

Il Salento ha più bagni, bagnanti, discoteche della Romagna, malgrado la marginalità geografica rispetto al Centro Europa. Ma non si celebra. Non si dice neanche.

Sudismi\sadismi
Tre parole di Renzi sul Sud, “non piangiamoci addosso!”, bastano a scatenare l’ennesimo attacco lombardo a ranghi serrati. Non contro Renzi, contro il Sud:  il “Corriere della sera” non risparmia pagine e consigli su come dare una lezione al Sud. Galli della Loggia chiede la legge e l’ordine. Molti redattori e redattrici hanno mugugni da esternare – si spera non per motivi familiari. Stella trova che la Norvegia è meglio della Sicilia – e che ha anche più turisti, il che non è vero (vero è che la Sicilia non li spella: la Norvegia costa quattro volte tanto).

Il Mezzogiorno è morto con lo Stato
È un’idea dello storico Galli della Loggia: lo Stato è morto venticinque anni fa, e con esso è scomparso il Mezzogiorno.
Galli della Loggia non ha in simpatia il Sud. Venticinque anni fa proponeva cavalli di frisia e muri, domenica, sempre sul,“Corriere della sera”, esordisce con questo identikit meridionale: “Lo Stato è anche la legge e i diritti uguali. Cioè il contrario del dominio degli interessi privati o di clan, il contrario dell’evasione fiscale generalizzata, del clientelismo, della logica della raccomandazione a spese del merito, dello sperpero del pubblico denaro. Ci piacerebbe che i nostri concittadini del Mezzogiorno d’Italia ce lo ricordassero…”. Ma tutto ciò è Mezzogiorno, o non Italia? Mezzogiorno in quanto si è costituito (in senso proprio: arreso) all’Italia? Com’è governata l’Italia, dove il Mezzogiorno si colloca? L’evasione fiscale è più alta – proporzionalmente al reddito e pro capite - in Italia o nel Mezzogiorno?
Ma lo storico ha anche qualcosa da dire, oltre al malumore. “Il problema del Mezzogiorno, del suo mancato sviluppo, non è anche questo silenzio della grande maggioranza della società meridionale, a cui da tempo fa eco il silenzio e il disinteresse del resto del Paese”? Non un fatto di giornalismo, di cronache disattente: il Mezzogiorno scompare con “la crisi che dagli anni Novanta del secolo scorso – combinando elementi nazionali e internazionali, assommando il post-sessantottismo ai più vari diktat dell’Europa d Bruxelles – va disintegrando lo Stato italiano storico, formatosi con il Risorgimento e durato fin verso la fine della Prima Repubblica”. Di cui la “«questione meridionale»” era la questione…, la principale sfida alla sua esistenza, il massimo dei suoi problemi storici, a cominciare da quello del consenso”.
Una conclusione per arrivare alla quale Galli della Loggia riconosce infine lo scenario apocalittico di quest’ultimo quarto di secolo, ed è il vero tema del suo intervento. Rapidamente (giornalisticamente), ma che baratri riconosce! “Lo Stato italiano classico è andato decomponendosi” per effetto del “dogma delle privatizzazioni, l’«andare sul mercato»”, e “del trionfo delle retoriche (e delle prassi) decentralizzatrici, sindacal-partecipative, democraticistiche, antimeritocratiche”. Che sembra troppo e troppo vago ma poi, andando sul concreto, è solo troppo sintetico. Ognuno vede che la privatizzazione delle reti di servizi, ferrovie, stazioni, poste, aeroporti, autostrade (cui vanno aggiunti telefoni, elettricità, gas) ha condotto rapidamente al “loro crollo qualitativo per il pubblico indifferenziato e al loro orientamento classista a favore di chi iuò spendere”. E che gli abituali “ambiti d’azione di un tempo” dello Stato, l’istruzione, il controllo degli enti locali, la tutela del paesaggio e del patrimonio artistico (e l’università, l’assistenza, oggi delegata al “terzo settore”, la stella del sottogoverno, altro che Buzzi, la stessa sanità) si sono dissolti nell’inefficienza e gli sprechi. Nonché “l’azione repressiva”, che purtroppo lo storico limita a queste due parole - la debolezza dell’apparato repressivo si può confermare per esperienza: i delitti (pizzi, dispetti, attentati, perfino assassini) non si prevengono, mai, malgrado l’abbondanza delle denunce, e di intercettazioni e controlli nelle indagini, ma lo storico non dice perché - dei Carabinieri non si parla mai, né delle Procure della Repubblica, comprese quelle più antimafiose.

La mafia capitale
Bisognava ancorare Mafia Capitale alla mafia, questione di concorsi esterni in associazione, ed ecco la ‘ndrangheta. Buzzi dice ai suoi accusatori che chiama ‘ndranghetisti tutti i calabresi. È possibile, i calabresi a Roma volentieri si dicono essi stessi ‘ndranghetisti, essendo rimasta la ‘ndrangheta l’unica connotazione. Ma questo è vero anche per i giudici di Buzzi, gli inflessibili siciliani Prestipino e Ielo, ed ecco che finalmente la Mafia Capitale è mafiosa.
Buzzi è andato in Calabria, ha preso gli appalti dai Comuni, le Province etc . per le sue cooperative, e nessuno gli ha chiesto il pizzo. Per questo, dice ”Cronache del Garantista”, i pm non gli credono: “Lei dice che è un imprenditore, che va in Calabria, lavora, e non le chiedono il pizzo?”
Questo Buzzi resta un enigma, finché non si chiarisce quello che era: un ex carcerato messo a capo di cooperative sociali, di cui è diventato il miglior imprenditore a Roma, essendosi dimostrato ben  capace di “lavorare con la politica”. E finché non si chiarisce che il “terzo settore”, volontariato e sociale, è “tutto politica”, cioè sottogoverno. Ma, forse per coprire il fatto, o più probabilmente perché è indagato dalla Procura Antimafia, dev’essere mafioso (l’istituzione crea il delitto). È anche comodo che lo sia, perché in fatto di mafia le Procure possono ora addebitare tutto a tutti. A discrezione.

Per molto meno di Roma, anzi niente (remote parentele di uno o due consiglieri), il Comune di Reggio Calabria è stato commissariato, subito dopo l’elezione del sindaco e del consiglio. Poi dice che il Sud non crede nella giustizia. Non crederà nella giustizia di Pignatone, che era uno a Reggio Calabria, quando commissariò il sindaco appena eletto, ed è un altro a Roma. 

La Provenza a Napoli
Les Baux e la Provenza, se ne parla solo in riferimento a Petrarca. Mentre ebbero una storia strettamente legata a Napoli. I signori di Les Baux, corte privilegiata dei trovatori, conti di Provenza, visconti di Marsiglia e principi di Orange, erano anche conti  di Avellino e duchi d’Andria. L’ultimo di loro morì a Napoli nel Seicento, marchese eccentrico se non bizzarro, che utilizzava un sigillo a forma di stelle a sedici punte. Proclamandosi, come tutti i suoi antenati, discendente di un bisnipote del re levantino Baldassarre, e dunque di uno dei tre Magi – “la loro vita reale è così fantastica”, commenta Rilke in una lettera a Lou Salomé, “che i troubadour rinunciano a inventare”. Arrivarono a controllare 79 città e villaggi. E il regno di Napoli – o viceversa, Napoli controllava la Provenza.
Furono famosi soprattutto per la bellezza delle donne. Che culminerà a metà Duecento nel culto di
Cécile de Baux, detta “Passe-rose”, quella che sorpassa le rose in attrattive. Famosi attraverso la poesia, che era però all’epoca un grosso veicolo internettiano, quasi facebookiano. Ma già al tempo di Cécile la dinastia era anche napoletana. Un secolo dopo un’altra bellezza provenzale, Giovanna I, sarà regina di Napoli. Figlia del duca di Calabria, regina titolare di Gerusalemme e di Sicilia, principessa d’Acaia, contessa di Provenza, sposa di quattro mariti, Andrea d’Angiò, Luigi di Taranto, Giacomo IV di Maiorca e Ottone IV di Brunswick-Grubenhagen, “il Tarantino” (sposandosi diventò principe di Taranto e conte di Acerra). Siamo qui nella storia, la dinastia è dei d’Angiò. Ma la favola di Rilke non è finita.
È a Napoli che infine la famiglia, pro o contro Giovanna, finì per installarsi. Mentre Les Baux passava dai governatori del conte di Provenza al re di Francia. Fino all’espulsione di tutti,  cittadini e residui signori di Les Baux, nel 1621 per peccato di protestantesimo.
A Napoli la dinastia rimarrà vittima, dice Rilke, della gelosie della corte e dei principi Sanseverino. Prospererà invece in Dalmazia e in Sardegna, fondandovi “robuste dinastie” - in realtà il cugino di Durazzo, Carlo, farà rinchiudere Giovanna nel castelo di Muro Lucano, inutilmente difesa da Avignone dallpantipapa Clemente VII, e poi la farà assassinare. Un piccolo romanzo di Rilke.

La mafia dell’antimafia
Rosy Bindi non ha combinato nulla alla presidenza dell’Antimafia – eccetto che usare la Commissione per attaccare i suoi nemici politici. Ora accusa Piero Sansonetti e il giornale “L’ora di Calabria” di contiguità con la ‘ndrangheta. Che invece era nato per combattere e ha combattuto. E accusa Sansonetti e il defunto giornale attraverso indiscrezioni a “Il Fatto Quotidiano”, per ingraziarselo. E questo è quanto. La paghiamo pure: non dovrebbe restituire le indennità?

I figli del giudice Borsellino hanno dovuto constatare amareggiati che l’antimafia delle carriere esiste. Era l’argomento sfortunatamente aperto da Sciascia trent’anni fa – sfortunatamente perché individuava nel carrierista proprio il giudice Borsellino (col quale poi si scusò). Il fenomeno è rilevantissimo a Palermo, anche il fratello e la sorella del giudice vittima di  Riina se ne sono avvantaggiati.  Oltre l’eterno Leoluca Orlando, il professionista principe, che è sempre sindaco di Palermo, benché abbia messo nel mirino di Riina il giudice Falcone – e lo stesso Borsellino. Lui che a una delle sue tante elezioni aveva avuto i voti unanimi di una paio di sezioni elettorali ad alta densità mafiosa.
Il fatto in sé è sgradevole, ma non necessariamente delittuoso. Se non che devia l’attenzione e la vigilanza dalle vere mafie, quelle che la Procura di Palermo da un ventennio abbondante non persegue più, a parte la cattura dovuta di Riina e Provenzano.  

L’antimafia istituzionale deflagra in Calabria - ma forse solo perché c’è più irsuta vigilanza, altrove sarà meglio? Dopo l’osservatorio della ‘ndrangheta, o Museo della ‘ndrangheta, che si è mangiato  gli 800 mila euro di dotazione  senza combinare nulla, sottraendoli a piccole somme a vario titolo, il sindaco antimafia di Reggio Calabria Falcomatà debutta con due nomine stupefacenti. Di condannati e di indagati per reati gravi. Debutta a dieci mesi dall’elezione, e già questo è dubbio - il Pd cittadino, il suo partito, lo accusa di inefficienza. Nomina suoi consiglieri e rappresentanti ai tavoli del Comune con la Provincia per l’utilizzo dei fondi Ue: 1) la criminologa Grazia Gatto, condannata a gennaio 2014 con rito abbreviato per falso in atto pubblico: insegnava all’università Mediterranea di Reggio Calabria senza averne i titoli (una semplice laurea breve, in un’università straniera sconosciuta), e comunque non riconosciuta “cultrice della materia” dal consiglio di facoltà. E insegnava per conto del titolare, il professore-giudice Alberto Cisterna, che figurava firmare il registro delle presenze; 2) Fabio Antonio Badami, un ex maresciallo capo Guardia di Finanza arrestato nel 2007 per concussione – poi non condannato per intervenuta prescrizione. I due naturalmente non sono consulenti “formalmente”,
Sono tutti belli, benché sui cinquanta. Falcomatà è anche molto giovane. E tutti renziani. Ma basta?
Già l’idea di un Museo della ‘ndrangheta era cervellotica: esaltare il crimine, sia pure in forma critica – la realtà della cosa non sfugge a nessuno.

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