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lunedì 26 ottobre 2015

Giovane a settant’anni

Fino a quando si è giovani? “Tutto dipende da che cosa s’intende per giovinezza”. È “un passaggio talmente delicato e mutevole da implicare un gran numero di sfumature”. I romani, si sa, si volevano giovani fino a tarda età. James, scrivendone ai settanta, fa l’antico romano: “Non siamo mai davvero vecchi, perché non sappiamo rassegnarci a smettere d’essere giovani: la giovinezza è un’armata che schiera l’intero battaglione delle facoltà e tutta la freschezza unita a illusioni e passioni”, etc. etc.
L’anno di passaggio James lo pone a quel giorno di marzo 1869 in cui sbarcò definitivamente in Inghilterra. Fece sua l’Europa, di cui in famiglia e negli studi aveva celebrato il culto. Anche con frequenti viaggi, che però non ricorda. Un’Europa – in realtà la decisione di lasciare l’imponente famiglia per vivere da solo - di cui aveva avuto due anticipazioni, in due distinti pellegrinaggi invernali nella neve del New England: in casa di una gentile signora che in tempi lontani era stata invitata a colazione in una casa patrizia londinese, e a colazione da W.H.Howels, uno scrittore dimenticato, che dice “insidioso ispiratore dei miei pensieri” (più intende, del padre Henry, anche lui, filosofo e teologo, del fratello William, delal sorela Alice, scrittrice anch’essa), invitato con Bayard Taylor, il poeta, altro dimenticato, e l’amico Arthur Sedgwick, circondati dalla “squisita moda veneziana” che l’anfitrione coltivava in ricordo del suo appena concluso incarico di console a Venezia.
È dallo sbarco a Liverpool che James si situa negli “anni di mezzo”, come fosse la scoperta dell’Inghilterra. A partire dal muffin – la proustiana madeleine in anteprima: “imburrato ricoperto, sempre ingenuamente bagnato con l’acqua bollente del tè”. Un ricordo di “immensa felicità”,  la felicità della scoperta di sé.
Londra dice “città poco ospitale e poco accogliente”: “Le idiosincrasie di Londra non sono mai state semplici insinuazioni; e inizialmente potevano lasciare a bocca aperta chi veniva da fuori”. Ma è accolto ovunque con affabilità. Di colazioni, e pranzi, sono piene queste pagine. Con meraviglia sua: tutti gli chiedono dell’America, perché non ne sanno nulla, e lui neppure. Tutti, cioè gente “del Temple, dell’Home Office, del Foreign Office, della House of Commons”. Qualche volta va anche in trattoria, ce n’era una a Piccadlly, dove ritrova “il piccolo vecchio mondo di Dickens”. È la Londra tardo-vittoriana, che è “essenzialmente onesta”.
James vi si aggira chaperonato da Mrs.Greville, “Ronnie” dal nome del marito Ronald, che il “Daily Mail” celebra come “The Society Hostess with the moistest”, “signora imponente, raffinata, molto miope e molto espansiva”. Il genere che preferisce, Mrs. Greville come Lady Waterford, la marchesa acquarellista pre-raffaellita (ma queste cose bisogna saperle in proprio), delle “«vecchie» bellezze”.
Il viaggio doveva continuare “con l’inimitabile Francia e con l’incomparabile Italia”. Ma l’Italia James trova alla National Gallery, con goduria e sorpresa, tra i Tiziano e i Veronese.
Scritto incompiuto (il seguito aveva pure una traccia: “Notes of a Son and a Brother”, sui rapporti con la notevole famiglia, sotto il titolo di lavorazione di un suo romanzo, “Gli anni di mezzo”) per morte intervenuta. Ornato, compiaciuto, prolisso. Per bene. Estremamente autocentrato, anche quando intrattiene di George Eliot, una ventina di pagine senza dirne nulla, o di Tennyson, una dozzina. Lo salva il guizzo iniziale di umanità.
Henry James,Autobiografia degli anni di mezzo, Il Sole 24 Ore, pp. 79 € 0,50

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